Cosmotronic Cosmo 12 gennaio 2018
8.4

Voglio essere sincera con voi. La persona che sta scrivendo questa recensione è una di quelle che alla parola “discoteca” le si accappona la pelle, quella che al liceo, alle serate forzate nei locali estivi con le amiche, stava in un angolo a perdere la voce chiacchierando con un gin tonic in mano piuttosto di buttarsi in mezzo alla pista a scatenarsi a ritmo di beat spaccatimpani e sincopi. Se non vi piace l’elettronica, se non vi piace ballare, se non vi piacciono i sintetizzatori, leggete questa recensione e ricredetevi. Prendete un paio di cuffie di qualità, fate partire "Cosmotronic" (42 Records) e lasciatevi andare, ballate a piedi nudi sul tappeto del salotto, cantante a squarciagola, godete, fatevi travolgere dal suono, dalle parole, da ogni singolo minuto di questo doppio disco. Cosmo, a due anni di distanza da L’Ultima Festa, torna con 15 tracce 100% elettroniche e sintetiche, come solo il cantautore di Ivrea poteva produrre. Un’ora e un quarto degna dei migliori club europei, dal Berghaim di Berlino al Fabric di Londra; 15 canzoni lunghe, 5, anche 6 minuti di crescendo, stop improvvisi, accelerazioni studiate e battiti fuori tempo, bassi capaci di far tremare mani, piedi e cassa toracica.

Non è mai facile parlare di elettronica, tra marchingegni dai nomi in codice e ritmi che un nome non lo hanno. "Cosmotronic" sicuramente non è un album facile: al primo ascolto non si capisce bene cosa sia, le vere protagoniste sono le basi ipnotiche che fanno scoppiare la testa, questa volta i testi passano quasi in secondo piano, diventano criptici, meno intuitivi, al limite del filosofico. Bentornato dà il via alla grande festa imbandita da Cosmo. Parte piano, sonorità da lounge bar su cui si arrampica un monologo a ruota libera dello stesso autore, Marco Jacopo Bianchi. “Oggi è San Valentino, mi sento un cretino. Non sono romantico, non sono delicato, non sono sdolcinato”. Come uno dei migliori flussi di coscienza descritti da Joyce, Cosmo svuota sé stesso per ripresentarsi al suo pubblico. Al minuto esatto accende la miccia e, come se fosse un capodanno musicale, fa scoppiare ufficialmente il disco con un pezzo allegro e travolgente con il quale si vuole già prendere per mano qualcuno e portarlo in pista a saltare fino all’alba. La canzone si ferma di colpo e le prime note tribali di Turbo entrano in testa come se ci fosse dietro un incantesimo. Quel “Toc, Toc” vi risuonerà nelle orecchie per giorni e giorni. Come il video che ha anticipato il disco, il pezzo ha il suo perno sul binomio stacco-ripresa, botta-risposta, cadenzato dalla drum machine e dalla stessa voce; il tutto poi si ricongiunge nel ritornello, che gira veloce come una giostra, in cui le immagini distorte e accelerate che si cerca di captare all’esterno fanno divertire e perdere la cognizione del tempo e dello spazio. Sei la mia città è la canzone più in sintonia con il disco precedente; a parere del cantante un brano malinconico, a parere mio un brano leggero e dolce. Il testo ritorna a fare da padrone ad un beat ondeggiante. È semplice, di una semplicità quasi disarmante, dritto al punto, ha quelle parole che vi immaginate dire in uno dei tanti film mentali, ma che poi finite per non pronunciare mai: “raggiungerti e dirti mi piaci, cazzo se mi piaci”.

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Ed è qui che si nota la genialità di Cosmo. Anche se a lui non piace definirsi tale, Cosmo per me è un poeta, un cantautore, e non mi vergogno a dirlo, anzi se potessi lo urlerei a gran voce. Cosmo con poche, concise parole riesce a dipingere dei quadri musicali, fatti allo stesso tempo d’amore, quotidianità, dolcezza e malizia. Non per forza qualcosa con chissà che significato, ma qualcosa di vero, autentico. Nella terza traccia si ascolta “sei la mia città, ti vengo dentro, e se succederà…”, lasciata volontariamente in sospeso. Doppio senso? Probabile, c’è sempre il beneficio del dubbio. Poi c’è L’amore, la traccia migliore di tutto il disco secondo me, un vero e proprio inno d’amore e all’amore. Inizia con i battiti profondi che risuonano solitamente nel club, quei battiti che hanno lo stesso ritmo del cuore, per poi sfumare in un ticchettio incessante. L’aspettativa, la confusione, la tensione, la malinconia, c’è tutto. La scena è quella di due innamorati, uno davanti all’altro, vicini, magari sulla dancefloor di qualche fumoso locale, circondati da persone, in attesa di quel momento, di quel singolo momento, e quando succede tutte quelle emozioni si decomprimono, come viene reso nel ritornello e si scatena un marasma di pensieri, lingue, cose, come riflesso dal bridge. Il testo parla da solo, quasi imbarazzante per la sua schiettezza: “E quando arriva la scossa ci vogliamo abbracciare / in questo delirio in mezzo alla gente / arriva l’amore, non capisco più niente / il meglio di te, il meglio me / ti scopri speciale, in fondo un po’ ti vuoi bene / è come in un sogno incredibile / magari poi non è vero, però adesso ci credo”. Nell'arco di una canzone si passa dalla dolcezza al sesso più sfacciato, praticamente spiattellato in Animali. La traccia si ispira alla musica EDM e “suona come un rullo compressore”, in cui il beat si trasforma quasi in una voce di sirena dal profilo afro, che invita l’ascoltatore a lasciarsi andare, a ritrovare la propria essenza animale, a cui fanno eco parole volontariamente esplicite come “basta solo fissarsi un istante / basta solo allargare le gambe” e “godi anche se sente tutto il palazzo”.

Un’altra delle peculiarità di Cosmo è l’assurdità. Cosmo è un’eccezione nel panorama italiano, un artista in grado di creare una miscela di cantautorato e musica da club, una bestemmia per i puristi, un’antitesi assurda per la maggior parte degli ascoltatori. Il pezzo che più rappresenta tutto ciò è Tristan Zarra. Tzara fu il fondatore del movimento artistico più assurdo che la mente umana potesse ideare nel ventesimo secolo: il Dadaismo. Il solo fatto che gli abbia dedicato una canzone e che abbia sbagliato volontariamente a scrivere il nome la rende una chicca. Ci sono le sonorità esotice, la new age, il boom cha cha cha, il rap, la polizia, Francesca Michelin che dice “Ciao Milano”, i festival, il figlio che racconta una storiella sugli squali, la doppiatrice di The Crown, la suoneria di un Iphone. 5 minuti e mezzo di delirio, un testo apparentemente senza senso, una sperimentazione creata sotto l’effetto dell’erba ma che da lucidi suona comunque maledettamente bene tanto che sarebbe degna della Biennale. E pensare che doveva esserci pure la De Filippi. Se voleva omaggiare l’eccentricità e la follia di Marcel Duchamp e soci, beh c’è riuscito alla grande.

I pezzi tecnicamente più semplici del disco sono Tutto bene e Quando ho incontrato te. Il primo è il brano più “cupo” e “triste”, caratterizzato da una drum machine che lo rende quasi ripetitivo, a cui si contrappone un ritornello rapido e apparentemente felice. Il tema è il lutto, il lutto per un caro scomparso e per cui si ha sofferto molto.  Il cantante recentemente raccontanto: “nel dolore immenso che ho provato mi sono anche sentito pervaso da una consapevolezza quasi serena”, ed ecco che il titolo ha un senso, l’opposizione delle ritmiche ha un senso, il tono del cantato ha un senso. Nella seconda invece il ritmo diventa dolcemente tribale, capace di dare il tempo a quelle mattinate in cui ci si sveglia alle 5 ma per qualche ragione non si ha più sonno. Cosmo voleva raccontare proprio quelle mattine insonni e in mancanza di ispirazione per concludere l’album, si è rifugiato in una baita in mezzo ai boschi con qualche synth, un pc e “d’improvviso chiudo gli occhi ed è l’alba e va bene così”.

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Ho vinto, il pezzo conclusivo, crea un continuum tra primo e secondo disco. Le poche parole si fanno militarmente scandite, seguondo lo stesso ritmo della cassa, infatti quando il suono si allieva, anche il cantano diventa un vaneggiamento più rilassato, ma poi l’autore torna a concentrarsi “sul suono di una cassa che pesta” e si apre Ivrea Bangkok. Con la canzone parte il lato b di "Cosmotronic", il lato quasi puramente strumentale del terzo lavoro di Cosmo. Il secondo disco si compone di 6 tracce dall’anima intrisa di synth, sudore, campionamenti e percussioni, tanto cariche da aver composto alcuni dei djset del cantante al suo Ivreatronic. Sono canzoni capaci di gasare involontaria, allucinanti, magnetiche, tra cui spicca Attraverso lo specchio, nata dal campionamento di un pezzo siriano, composta da una manciata di parole risicate, quel “ho trovato un passaggio, chi viene con me?” oscuro, invitante e allo stesso inquietante. Facile entrare in trip.

Non è un album che si potrebbe definire indie, non è neanche il tipico album pop, ma non è nemmeno un album dell’elettronica. Cos’è "Cosmotronic"? Un album atipico, sui generis, sperimentale, in cui Cosmo ci ha buttato tutto sé stesso, anche la parte più marcia, un album talmente particolare e complesso da spiegare in tutte le sue sfaccettature che non ha bisogno di nessuna etichetta. È un genere a sé stante. È Cosmo, punto è e stop. Il cantautore di Ivrea diventa il punto di incontro tra due universi paralleli: quello della musica da club, fatta di basi fortemente cadenzate e “monotone”, e quella del cantautorato di qualità, fatto di poche, semplici parole istintive. La bravura di Cosmo sta proprio nel trovare il numero perfetto di parole giuste da inserire tra ogni beat, non importa quanto surreali siano gli accostamenti che si vengono a comporre, o quanto possiamo sentire reali le immagini che evoca. Il risultato è un album completo, che si diverte a giocare con le contraddizioni: canzoni cervellotiche ma allo stesso tempo istintive e quasi animalesche, si parla e si canta, temi da massimi sistemi e temi all’ordine del giorno, romanticismo e erotismo, stop bruschi e accelerazioni graduali. "Cosmotronic" manda semplicemente fuori di testa.