Stumpwork Dry Cleaning
8.4

Should I propose friendship?

Un giro di basso, una drum machine dalla vita breve e la voce inconfondibile di Florence Shaw che proietta nella mente dell’ascoltatore le immagini di un nuovo racconto. Il ritmo è regolare e l’atmosfera da lounge bar, rinsaldata anche da un inedito sassofono, non si cura delle parole del testo e prosegue il suo viaggio fino al finale etereo.

I Dry Cleaning, un anno dopo il brillante esordio New Long Leg, non riprendono da dove avevano lasciato, ma decidono di esplorare nuovi territori. Questo lo si percepisce fin dalla traccia di apertura Anna Calls From the Arctic in cui la chitarra di Tom Dowse spalma degli accordi dal carattere spaziale per quasi cinque minuti, lasciando chi ascolta orfano dei suoi fraseggi contorti.
Stumpwork è nato, come il suo predecessore, in Galles, dove è stato prodotto dall’ormai fido John Parish. Tuttavia, la sua gestazione è stata più lunga rispetto al primo disco. Un ragionamento e una cura del dettaglio che si avvertono in ognuna delle undici canzoni.

(c) Ben Rayner

Lo stumpwork è una tecnica di ricamo risalente al periodo storico compreso tra il XV e il XVII secolo, caratterizzata da figure in rilievo imbottite con ovatta o capelli.  Un termine molto specifico che Florence voleva utilizzare da anni e che forse, facendo uno sforzo mentale non indifferente, può essere assunto a manifesto poetico. Non tanto per il significato, quanto per il suo significante: una parola ricercata, inserita in un contesto estraneo e quanto più distante dall’originario – come può essere un capello rimasto appiccicato sopra una saponetta – che acquisisce una valenza nuova.

Gli elementi che meglio rappresentano i Dry Cleaning sono sì il parlato della frontwoman, sì il basso avvolgente, sì la batteria matematica e la chitarra da inizi anni Settanta, eppure diventa complicato definire in maniera precisa il loro surrealismo. Di solito, quando si fa riferimento ad esso, le immagini che vengono in mente sono sfocate, i contorni appena accennati. Le evocazioni della band inglese sono invece nitide, quasi cinematografiche, nonostante l’alternanza costante tra racconti reali e suggestioni mentali. Già dal titolo, Anna Calls From the Arctic si presenta in tal senso, tuttavia per la prima volta si avverte un primo leggero riferimento alla realtà - quella vera, non quella del racconto. Bastano tre versi: «Nothing works / Everythings expensive /And opaque and privatised».

ionicons-v5-c

La voglia di non uscire con un secondo album che fosse un’astuta riproposizione della formula vincente dell’esordio è evidente nei temi oltre che nella musica. Kwenchy Kups e il singolo Gary Ashby offrono due rappresentazioni della distanza e della disintegrazione sociale causata dagli eventi degli ultimi due anni. Gli animali diventano ignari protagonisti: le lontre come distrazione ed espediente per non pensare alle cose che vanno male e una tartaruga domestica in fuga come capro espiatorio di una crisi familiare in lockdown.

In entrambe le canzoni la vera protagonista torna ad essere la chitarra di Tom, prima in modo più accomodante, sia nel volume che nel ritmo, come a voler lasciar spazio al parlato. In Gary Ashby invece è il suo riff a dettare il tempo e costringe Florence ad uno dei suoi rari spezzoni di cantato. Il mood della musica non combacia col testo, l’effetto procurato è lo stesso di una battuta cattiva: nessuno ammetterebbe mai che fa ridere, trattenendo però a stento un sorriso.

ionicons-v5-c

Di Stumpwork si potrebbe parlare solamente facendo riferimento alla chitarra. Lo spettro dei colori e delle sonorità espresse in questo secondo album dalla Jazzmaster di Tom Drowse fa da contraltare all’omogeneità dell’esordio. La parte centrale del nuovo disco prende il volo a partire dalla stupenda Driver’s Story. Il suono acido degli accordi è lontanissimo dal mondo inglese e dalla corrente post-punk in cui sono stati inseriti i Dry Cleaning. Se uno ascoltasse questa canzone senza conoscerli, li scambierebbe di certo per una band americana. Ma cosa c’è di bello in questa quarta traccia? Beh, si farebbe molto prima a trovarne i difetti: zero. Un assolo a metà strada tra Frusciante e il John McGeogh dei Siouxsie and the Banshees dipinge alla perfezione l’itinerario delle parole sussurrate senza apparente convinzione. Il basso di Lewis Maynard sembra assente, ma già al terzo ascolto non ve lo toglierete dalla testa.

A proposito di Basso – sì, con la B maiuscola – la successiva Hot Penny Day si apre con un effetto flanger inedito per la band. Il brano segue una direzione tutta sua che unisce il funky alla psichedelia, con una coda tarantiniana con chitarra e sax. Il testo è di gran lunga tra i più ispirati in assoluto e tra i meno interpretati. Sembra un paradosso, ma la calma ingiustificata di Florence nel descrivere una relazione tossica fatta di violenza, là dove ci si aspetterebbe uno sfogo rabbioso o un aumento di volume, disinibiscono chi ascolta, ma rendono tutto più rilevante.

ionicons-v5-c

Siamo a metà e la titletrack è ancora qualcosa di diverso: suggestioni una dopo l’altra, in una traccia che evolve continuamente. Dagli accordi puliti, fino al breve ma bellissimo arpeggio di radiohediana memoria del bridge, passando per una linea di basso che si fa più densa e presente col passare dei minuti. Il racconto di un party si perde offuscato dalle sonorità camaleontiche: prima fumose, poi per pochi istanti quasi sognanti. La memoria che funziona a tratti, forse per l’alcol, oppure perché il narratore vuol far prevalere il non detto.

Segue No Decent Shoes for Rain, forse il pezzo più personale del disco. Come dichiarato da Florence, il tema principale è il lutto: relazioni passate, persone che se ne sono andate per sempre e rimorsi e i rimpianti che hanno lasciato in eredità. La band non era convinta all'inizio, tant'è che la versione incisa su disco è praticamente una live take che i quattro hanno fatto ascoltare a John Parish che se n'è subito così innamorato da volerla inserire così com'era.

Si può quasi parlare di doppia canzone: la prima parte riprende lo stile della precedente Stumpwork, atmosfera anni Novanta e accordi di chitarra sporcati e distorti sul finire, dopo tre minuti e mezzo, quando il silenzio inganna l’ascoltatore, delle note di chitarra introducono la seconda. Il crescendo rappresenta uno dei momenti più emotivi del disco, a sottolinearlo anche il suono di un organo che chiude la traccia. Inutile dire che il dialogo di chitarra e basso suscita sensazioni più recenti, come i Red Hot Chilli Peppers del secondo Frusciante, o più lontane nel tempo, vedasi i Magazine.

ionicons-v5-c

La bellezza di questo secondo album sta nell’inaspettata vena intimistica, messa spesso in contrato con una strumentale dal tono opposto. Tale effetto è riscontrabile nel primo singolo estratto, Don’t Press Me. Unica canzone con una parvenza di ritornello - una delle pochissime dei Dry Cleaning -  in cui Florence canticchia. Il fatto che il testo sia un dialogo con la sua mente opprimente la rende speciale e unica nella seppur ancora ristretta discografia della band.

Conservative Hell introduce l’ultima sezione del disco, la più sperimentale e forse quella che potrebbe anticipare la direzione che la band intraprenderà da qui in poi. Un matrimonio in crisi portato avanti a fatica come se fosse un impegno, un figlio per tentare di ravvivarlo, un ritmo rapido dettato da un’altra fantastica linea di basso, la chitarra che si interseca quando può per dare respiro e una coda strumentale dove subentrano ottoni e synth. La sperimentazione dei Dry Cleaning conduce la band in territori inesplorati come in Liberty Log. La traccia più lunga dell’album unisce gli Slint all’elettronica e riecheggia nelle note di chitarra allungate fin quasi ad imitare uno strumento ad arco. La vera protagonista è però la batteria di stampo jazzistico di Nick Buxton che dà ritmo ai viaggi mentali di Florence che questa volta combaciano alla perfezione col contesto musicale che li accompagna.

For a happy and exciting life
Locally, nationwide or worldwide
Stay interested in the world around you
Keep the curiosity of a child if you can
Resuscitator

L’ultima strofa di Iceberg con cui si chiude il disco è la descrizione migliore del secondo album della band londinese e dei suoi intenti, oltre che un mantra da tatuarsi in mente. Si apre con un sax inaspettato e si chiude allo stesso modo. Se c’è una cosa che andrebbe fatta per apprezzare a pieno le evoluzioni e le diramazioni di Stumpwork è proprio ascoltarlo seguendo l’ordine esatto delle tracce. Sì, andrebbe fatto di norma - anche se ci sono dischi la cui tracklist è redatta ad occhi chiusi e orecchie tappate - ma in questo caso ha un senso ulteriore farlo. Non si sta parlando di collegamento lirico o tematico tra le canzoni, anzi quello è quasi assente. Si tratta invece di un percorso a livello di sonorità.

I Dry Cleaning non sono di certo una band facile da ascoltare, con lo spoken al femminile spesso sconnesso dalla realtà circostante e gli strumenti che sembrano suonare un’altra canzone che nulla ha a che fare col testo. Nonostante ciò, tutto funziona. Sembra di stare in un film, anche se allo stesso tempo la musica suscita ricordi provenienti dal mondo in cui viviamo. I quattro sono capaci di rendere nuovo un sound vecchio, ma soprattutto riescono a superarsi con un secondo album vario, ironico - a tal punto che a tratti sembra non prendersi sul serio -, costruito su contrasti e silenzi.

Forse non c’è soluzione migliore della sinestesia per definirli: i Dry Cleaning sono una band inglese che suona come un romanzo americano postmoderno, un John Irving che scrive con la voce e l’accento di Mark E. Smith dei Fall.

(C) Guy Bolongaro