The Wombats Fix Yourself, Not the World
6.8

L’alba del nuovo anno comincia con coloro che di solito amano spezzare la monotonia. Quella generata dalle aspettative, dai buoni proposti e dalla malinconia di essere, ancora una volta, già indietro rispetto alla tabella di marcia.

I Wombats non hanno mai lottato molto duramente col mondo discografico degli ultimi anni. La loro musica si è sempre mantenuta in chiave piuttosto lineare, rielaborando concetti non poco complessi in parole semplici. In poche parole, come farebbe ogni adolescente ribelle che si rispetti. Ed è proprio questo, forse, l’obiettivo con cui è nato questo progetto.

Tuttavia, tentare un approccio con Fix Yourself, Not the World non è poi così spontaneo. All’apparenza potrebbe sembrare un disco con all’interno tematiche ed espressioni musicali dalla natura piuttosto superficiale, ma scavando a fondo, questo album dimostra di non esserlo affatto. O almeno, non del tutto. È la storia di Murphy, Knudsen e Haggis che durante il lockdown si ritrovano sparsi in tre Paesi diversi, accompagnati da una buona dose di nostalgia e di frammenti di canzoni. Funge da motore anche la velleità di sperimentare nuovi generi, nonché la voglia di tornare sulla scena internazionale dopo circa quattro anni di attesa.

Et voilà. Nuovamente immersi negli inconfondibili toni di spensieratezza di quando tutti ballavamo Let’s Dance to Joy Division. Ma stavolta la questione si fa un po’ diversa. Nelle orecchie risuonano i Blur, i Red Hot Chili Peppers e, a tratti, anche le sonorità più eteree degli Interpol. Il tutto tradotto in una leggerezza senza eguali, introdotta da una copertina in pixel anni ’90 e dal basso di Flip Me Upside Down. Un’atmosfera che viene subito messa a tacere da This Car Drives All by Itself, che segue il ritmo lento di un classico pezzo indie rock. A tal proposito, sfido chiunque a non sciogliersi di fronte a quel « And the kids aren’t wrong ». Più precisamente, se ascoltato alle tre di notte dopo una giornata trascorsa a rimpiangere il proprio passato.

È ancora un maggiore toccasana se in aggiunta seguono tre dei singoli di questo disco. Con quell’adorabile quanto banale synth di If You Ever Leave, I’m Coming With You, unito al (quasi) ben riuscito tentativo di grunge in Ready for the High sarete pronti per un weekend estivo nell’entroterra toscano, in compagnia dei vostri due migliori amici del liceo e con i quali passerete la notte entusiasti di guardare per la prima volta American Horror Story. Quell’esperienza che sarete convinti andrà a svoltare la vostra bella stagione, ma che ben presto vi lascerà un vuoto che potrete benissimo colmare con Method to the Madness.

Dopotutto, è forse in questi tre brani centrali che intercorre l’essenza di questo album. Fix Yourself, Not the World scivola in una marea di pensieri elaborati in un tempo lontano. Riflessioni che vengono trasportate da una corrente nostalgica e legata ad un presente non molto semplice da affrontare. Quello della band di Murphy è un processo interessante. L’impossibile intento di porre freno al tormento di una mente appesantita dalla realtà, esprimendo quegli stessi concetti sottoforma di gommapiuma. Ed ecco che vengono fuori brani come People Don’t Change People, Time Does, in cui il dolce sapore di una ballata perfettamente godibile si incrocia all'atmosfera di una papabile sigla per un ipotetico reboot di Zoey 101. O ancora, nelle successive Everything I Love Is Going to Die e Work Is Easy, Life Is Hard, musicalmente troppo acerbe per poter mantenere alta l’asticella di un simile progetto.

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Nulla di troppo diverso da dire per le battute finali. Ci si risolleva l’animo con gli acuti e il rock quello figo di Wildfire e Don’t Poke the Bear. Sul basso rotante e le batterie di quest’ultimo pezzo, non c’è miglior descrizione di quella fornita dallo stesso frontman: «This is about knowing when to back off and leave people alone». Un tumulto di chiasso che si prepara a lasciare spazio ai pochi ma buoni versi del brano conclusivo. Il cerchio si chiude quindi con Fix Yourself, Then the World, quel titolo che suggerisce una triste verità e che, lo shoegaze in stile Loveless dei My Bloody Valentine, è in grado di presentare in maniera impeccabile.

In sostanza, la band di Liverpool non è famosa per spingere al massimo del suo potenziale. D’altro canto, è nota la loro innata capacità di salvarsi in calcio d’angolo, probabilmente aiutati dagli astri ma anche dagli hipster nostalgici che sono rimasti in circolazione. Tutto perfettamente coerente con questo ultimo lavoro, il quale rientra senza dubbio nella descrizione appena citata.

Fix Yourself, Not the World espone un’idea interessante e che, pur presentando diversi errori o mancanze, è come un accogliente piatto di pasta col pesto. Quello del supermercato, certo. Ma pur sempre rigenerante.

 

La band sarà live in Italia nel corso di questa primavera. Biglietti disponibili su Ticketone:

Giovedì 12 maggio 2022 @Estragon – Bologna

Venerdì 13 maggio 2022 @Fabrique – Milano

Ph. Maria Laura Arturi