Alla fine della fiera, secondo uno studio che non poggia assolutamente su basi scientifiche, non è il secondo album quello più complesso da realizzare, ma il terzo. Perché se il primo lo fai senza la vera consapevolezza che quello possa realisticamente diventare un lavoro e il secondo è frutto di un impegno, magari, cominciato già di pari passo al primo disco, è al terzo che si rivolgono tutte le attenzioni. Anche quelle dell'artista, che per la prima volta pensa al fatto che si deve mettere al tavolino e dire: "Ora devo scrivere delle canzoni". Questo, almeno, è il caso di Fulminacci, che con Infinito +1 vuole dare una cesura netta a molti aspetti stilistici che hanno caratterizzato i suoi due album precedenti: La Vita Veramente e Tante Care Cose. Se con quest'ultimo era chiaro che avesse fatto uno scatto in avanti in termini di maturità musicale ("Ma lo sai questo paese / se c'hai dei sogni li spezza a metà" è tutt'oggi un meraviglioso inno agrodolce che ti schiaffa in faccia la realtà), Infinito +1 è altro. Qualcosa di differente, che porta Fulminacci verso altri lidi inesplorati, ma nei quali riesce comunque a destreggiarsi molto bene, tranne qualche caduta frutto del percorso accidentato che un luogo complesso, ancora tutto da scoprire, offre.

Infinito +1 dura mezz'ora, il tempo di una chiacchierata veloce tra Filippo e il fruitore dell'album, con l'inserimento prima di Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari e poi di Giovanni Truppi, che è la tipica persona che quando ti vede parlare con qualcun altro (in questo caso l'ascoltatore) ti dice: "dai ti lascio, però organizziamo eh, ci vediamo presto". Presenzia quei quattro minuti scarsi e poi lascia spazio alle ultime quattro canzoni del disco.
La cesura netta con il passato è evidente fin dalla prima traccia, non a caso intenta a Spacca(re) tutto. Filippo sembra dire all'acoltatore di abbandonare per un attimo il tipico Fulminacci, per abbracciare quello de Le ruote, i motori che fu. L'esperimento riesce. Evidentemente scioccati dal nuovo corso, ci si riassesta su regole più logiche del cantautorato italiano con Puoi. Quando era stata annunciata la tracklist, la più grande paura risiedeva proprio in questo pezzo, con l'idea che forse il cantante romano potesse finire in secondo piano rispetto alla band capitata da Zanotti, ma questo non è successo. Un plauso soprattutto alla rima mancata (fortunatamente) tra VAR e bar (più intelligentemente sostituita da rockstar).
Il manifesto del disco resta comunque Spacca: in tutto il lavoro si trovano pochissimi assoli perché, spoiler: "non li vuole mai nessuno, solamente chi li fa", e pertanto vengono preferiti dei bridge molto catchy (proprio quello di Puoi funziona molto bene) e dei pezzi clamorosi come Ragù.
Devo scrivere una hit che non è una hit
Sì, per non fare passi indietro e neanche in avanti
Eccolo il motivo. La paura, latente, di restare fermo su se stesso, di non migliorare e di fare dischi tanto per fare: tanto c'è il pubblico generalista che ascolta un po' di tutto (o di tutto un po'?). Per questo motivo via gli assoli, via la struttura della forma-canzone come siamo abituati a conoscerla. Rivoltiamo tutto, il terzo album deve essere rivoluzione, anche un po' pazza (vorremmo tanto sapere chi gli ricorda allo stesso momento sia il duce che la cocaina).
Una voce distorta che fa da cassa storta introduce Filippo Leroy. Un binomio che subito dopo Ragù diventa esplosivo. È un Fulminacci diverso, fa strabuzzare gli occhi per la sua duttilità, alcune volte anche esagerata. All'apice del momento alternative arriva Simile, che fa ritornare tutti giù con i piedi per terra. Il testo non è troppo pungente e, anche se scritto bene, non convince fino in fondo, soprattutto quel passaggio forse eccessivamente netto tra prima strofa e ritornello, che invece di straniare porta a percepire un effetto di grossolanità di cui si avrebbe potuto fare a meno. Questa canzone è decisamente la spartiacque del disco: se i primi tre dei quattro brani proposti si propongono di essere un taglio netto rispetto al passato pur mantenendo, una tantum, qualche legame, con il secondo featuring il disco inizia realmente a svelarsi.
Occhi grigi con Giovanni Truppi non lascia molto. Si pone a metà tra una ballad poco riuscita e un qualcosa di poco comprensibile a livello testuale. Nei momenti riflessivi, in questo album, Fulminacci sembra quasi essere meno consapevole del suo valore e quindi scade verso liriche poco incisive, che lasciano poco il segno, a differenza dei momenti innovativi, come un'inaspettata Baciami, baciami, il primo pezzo suonato con la chitarra elettrica a tutto volume. Va immaginato posizionato in una futura setlist come primo bis pre-Tommaso (che ormai è suonata live come la hit rockettara per eccellenza) e infatti, anche nel disco in studio, è un po' più spostata verso la fine. È un pezzo sicuramente riuscito, ma il vero pilastro di questa seconda parte è Tutto Inutile. È il brano del disco, una spanna sopra tutti, anche banalmente per capacità e scelte lessicali tali da poterla cantare con facilità nonostante aumentino vertiginosamente i bpm secondo dopo secondo. È un pezzo che, a dispetto di un'introduzione che può suonare scherzosa con i suoi richiami al flamenco, ha un testo struggente: è tutto deciso, una visione a tratti protestante della vita, in cui
Che senso ha questa maledetta felicità
[...]
lo sai che tutto è già scritto e già l'hanno fatto
La risposta si trova nella seconda parte del ritornello, in cui si dà una chiave di volta al problema (e in questo Fulminacci è sempre una spanna sopra gli altri): non lascia il problema marcire, ma cerca di essere pro-attivo e propone di guardarci un po' più da lontano, come fossimo figure terze, distanti, così sì che "sarebbe tutto un po' più facile". È un pezzo ragionato, pensato, magari scritto di getto, sicuramente di livello superiore, oltre al fatto di avere insita dentro di sé la magica capacità di essere così diretto da permettere di mandare a memoria tutto il testo in due secondi e mezzo netti dal primo ascolto.
A chiudere l'album ci pensano due brani che meritano di essere analizzati insieme: Così cosà e La siepe. Il primo ha un giro di accordi intrigante e classico allo stesso tempo, senza mai per questo scadere nel banale: un pezzo "da Fulminacci", da ascoltare di notte (forse non da suonare davanti ad un falò).
La successiva e conclusiva La siepe è cantautorato vero, maturo, con qualcosa da dire. Resta dopo qualche ascolto, non arriva subito. Ed è un bene. Per pochi eletti, tra coloro che pesano il tempo d'ascolto e che non cambiano canzone dopo il primo ritornello. Fulminacci qui va controtempo - contronatura - come dice nel testo stesso. Bisogna aspettare per dare un giudizio a questo brano, però ha la sicurezza di un artista che sa di essere divenuto adulto, finalmente adulto. Basta ascoltare le ultime canzoni di ogni album per rendersene conto, un filo conduttore che passa da un innamoramento adolescenziale (Una Sera), all'amore universitario (Le Biciclette) al mettersi in discussione come uomo (La siepe, per l'appunto).
Fulminacci dopo il terzo disco ha ancora qualcosa da dire e questa è la sua forza, il motore portante della sua creatività. E no, non è tutta tattica, tattica, tattica, tattica, c'è molto di più. Fortunatamente.
