Wasteland, Baby! Hozier 1 marzo 2019
9.2

wasteland (ˈweɪs(t)land,ˈweɪs(t)lənd): un’area inutilizzata di un territorio che è diventata arida o ricoperta di vegetazione

In una parola: deserto.

Deserto è quello che Hozier, Andrew Hozier-Byrne,  ha lasciato una volta conclusa la tournée del suo album di debutto, dopo il successo planetario di Take Me To Church, del suo controverso video; ha interrotto il silenzio solo per pubblicare Better Love, inserita nella colonna sonora del film The Legend Of Tarzan, ma nulla di lontanamente paragonabile al rumore che aveva provocato con i suoi primi singoli.  Allora non era per niente scontato che un giovane cantautore irlandese, una voce scura e potente, vicina alle atmosfere del blues, del gospel e del soul, potesse colpire nel segno con un album come quello. Hozier era l’anti-pop, un pesce fuor d’acqua nello stesso mare in cui nuotavano Taylor Swift e Meghan Trainor, che in quell’occasione si contendevano con lui un Grammy Award come Canzone dell’Anno.

I suoi non erano testi allegri, pieni fino all’orlo di black humor e metafore inquietanti:

So long we become the flowers

Two corpses we were

Two corpses I saw

Eravamo due cadaveri, due cadaveri ho visto. Ecco, appunto.

Anche le sonorità erano atipiche: parliamo del 2014, c’erano Ed Sheeran, gli One Direction e Pharrell Williams; i brani di Hozier, invece, si reggevano su una chitarra, magistralmente suonata, e poco altro. Lui, autore, interprete e musicista, c’entrava come l’ananas sulla pizza nel panorama musicale dell’epoca, eppure, per qualche strano motivo, è riuscito a ritagliarsi un piccolo spazio nel cuore del pubblico.

Deserto, però, è anche una prospettiva: quando hai 24 anni e il tuo brano di punta diventa la canzone più ascoltata dell’anno su Spotify, il rischio di fare un passo falso, di compromettersi, diventa una difficile realtà da affrontare. Andrew non ha mai avuto un buon rapporto con la sua fama e  non è mai stato troppo attivo sui social network, perciò, una volta assolti gli obblighi artistici che hanno fatto seguito al suo debutto, è tornato a casa, in Irlanda, per concentrarsi sulla scrittura dei nuovi pezzi.

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Hozier sa bene che cinque anni di lontananza dalle scene possono considerarsi una scelta intelligente, meglio prendersi una pausa per produrre materiale di qualità che vendersi al miglior offerente, oppure una decisione estremamente stupida, data la rapidità con la quale l’industria musicale evolve. Se poi sei un artista che non segue la massa, che fa musica per amore e non per il successo, le cose si fanno ancora più complicate… "Wasteland, Baby!" segna la fine di questo lungo hiatus: un album di 14 tracce per un totale di 57 intensi minuti, che nelle mani di Hozier diventano un lungo tributo alle figure artistiche che hanno segnato la sua vita. Il primo singolo e brano d’apertura del disco, Nina Cried Power, è un grande omaggio a Nina Simone, Billie Holiday, B.B. King, John Lennon e non da ultimo Mavis Staples, che duetta con lui nella canzone. Tutti loro, con la loro musica, i loro testi, le loro voci, sono stati l’anima dei movimenti di protesta del secolo scorso. Ora, c’è una frase in Nina Cried Power che Hozier dedica ad ognuno di quei personaggi: di loro dice “It’s not the song, it is the singing”, non è la canzone ma il modo in cui la canti. Se dovessi usare solo una manciata di parole per raccontare l’intero album, userei proprio queste; non sono le canzoni a rendere speciale "Wasteland, Baby!" ma il modo in cui Andrew le canta (e le suona).

Devo premettere che l’intero album porta con sè una forte sensazione di déjà-vu: Hozier mantiene nei brani tutte le sonorità del suo precedente lavoro, dalle atmosfere folk di Shrike e Cherry Wine, alla ritmica di To Noise Making (Sing), simile a quella di Jackie And Wilson. Non abbandona nemmeno le sue metafore oscure, i riferimenti biblici e mitologici (tra gli altri Giona e San Pietro in Movement e Be, oppure Atlante, che viene nominato in due occasioni diverse), e continua a raccontare se stesso attraverso una lunghissima serie di canzoni d’amore. Manca del tutto, invece, una nuova Take Me To Church, un pezzo confezionato a puntino per urlare alle radio, “Hey, guardate, Hozier è tornato!”, e credo che sia una scelta consapevole, quella di dar vita ad un album che non pensato per essere pop.

No, "Wasteland, Baby!" non è una copia del suo album di debutto. In questi cinque anni Hozier è maturato, ha acquisito consapevolezza dei suoi strumenti, ha imparato a sfruttare al meglio i suoi punti di forza; così compaiono i controtempi, le ritmiche si fanno più complesse e i cori diventano protagonisti tanto quanto la sua stessa voce. Tutti questi elementi esistevano già tanto tempo fa, ma solo in forma embrionale: ad Andrew serviva trovare una propria identità musicale definita per sbocciare come un fiore a primavera. Quest’album straripa di passione, di onestà, quando dalle energiche Nina Cried Power, Movement e Dinner & Diatribes (che, per quanto mi riguarda, sentirei bene nella colonna sonora di un film!) passa alle sommesse Shrike e Wasteland, Baby!.

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E se Hozier orchestra un album così curato nel dettaglio, posso anche concedergli di indugiare sui suoi honey e baby qualche volta di troppo. Vero è che chi conosce bene l’artista non troverà nulla di particolarmente originale, nè a livello musicale nè per quel che riguarda i testi. La stessa Nina Cried Power, direte, sembra un elenco della spesa, con tutti quei nomi citati durante il ritornello (qui lo dico e qui lo nego, potrebbe pure cantare l’elenco del telefono ed io mi scioglierei come neve al sole), ma ha una forza tale da diventare un inno. La traccia più particolare in questo lavoro è sicuramente No Plan, sulla quale gioca con la distorsione e schiera in campo un intricato giro di basso, anche se, devo ammettere, credo di avere un debole per i suoi momenti più intimisti, quando resta (quasi) solo con la sua chitarra, come in As It Was.

Questo è Andrew Hozier-Byrne che si regala senza compromessi; credo fermamente che quest’album non riscuoterà lo stesso successo del precedente presso il grande pubblico ma va bene così. "Wasteland, Baby!" non vuole essere popolare, ma solo una grande dimostrazione di amore verso il fare musica, per così dire, all’antica (e qui cito la sua To Noise Making (Sing)). Forse non è l’album adatto per imparare a conoscere Hozier, forse è un po’ troppo difficile per chi non è abituato a suoni più ricercati. Al contrario, credo che la sincerità che questo ragazzo ha dimostrato, oltre alle sue capacità artistiche, che non discuto, sia un buon punto di partenza per cominciare a chiedersi se sia ancora possibile fare musica in un modo diverso da quello a cui ci siamo abituati; se c'è una cosa veramente bella in questo lavoro è che ti fa sentire come se ogni canzone fosse stata scritta per te, non per tutti, non per i fan o per il pubblico, ma proprio per te, come farebbe un amico, con l'umiltà di chi si confessa, senza risparmiare neanche un briciolo di sè, e non pretende di essere accettato a tutti i costi. Una nota di merito va alla cover dell'album, ancora una volta realizzata con la collaborazione di Raine Hozier-Byrne (sì, la madre di Andrew), già autrice dell'artwork del debutto dell'artista.

Per chi come me lo ha aspettato per un lustro e ha temuto che si fosse venduto alle tentazioni dell’industria discografica, "Wasteland, Baby!" è il ringraziamento migliore che si potesse ricevere. E come Hozier chiude questo nuovo capitolo musicale, con la traccia che dà il titolo al disco, io concludo questa recensione: that’s it.