Surrender Hurts 6 ottobre 2015
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Il terzo album è sempre una grande incognita, una sorta di prova del nove soprattutto per quegli artisti che sono partiti col botto con l'album d'esordio: l'hype è alle stelle, la pressione e le aspettative sono molto alte soprattutto se il genere di musica trattato non è dei più popolari e diffusi. Poi, se cacci fuori un singolo di lancio come Some Kind Of Heaven e metti le mani avanti anticipando che sarà "l'inizio di una spavalda odissea" vuol dire che non solo ti piace scavarti la fossa da solo, ma che ti ci tuffi come se fosse la piscina del Chateau Marmont riempita di piña colada.

Ma si sa, gli Hurts non hanno mai avuto una vita particolarmente facile e sono piuttosto certa che siano in quella fase della loro vita e carriera dove il motto non è YOLObensì fregancazzo totale. Ed è proprio questa, con ovvi rimaneggiamenti più eleganti del termine, l'idea di fondo che permea in lungo e in largo il terzo album, Surrender, del duo di Manchester: la libertà. Consapevole del fatto che la traduzione in altre lingue potrebbe avere una connotazione negativa, il frontman della band Theo Hutchcraft spiega il titolo del disco inserendolo nel contesto di quella "sensazione di lasciar andare, di non resistenza che ha in sé una forte idea di libertà". Concetto facilmente comprensibile se si tiene conto del fatto che a differenza degli album precedenti – Happiness ed Exile – questo disco vede un processo creativo che viaggia con loro attraverso Ibiza, Los Angeles, New York e la Svezia invece che del solito scantinato buio tra Londra e Manchester.

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Dopo aver esorcizzato in Exile i demoni di Happiness, con Surrender siamo davanti a qualcosa di nuovo e soprattutto diverso che non teme il dirottamento volontario verso scelte che puntano ad arrangiamenti coraggiosi, al non ripetersi mai, ma che a ben vedere non perde mai l'impronta originale degli Hurts. Nonostante l'inserimento di una nota di "colore" in questa nuova era, a partire dall'artwork pink flamingos del disco, è inevitabile non notare il solito dualismo che contraddistingue questa living-in-black-and-white band soprattutto nella scelta dei brani da presentare al pubblico prima dell'uscita del disco. Da un lato abbiamo la hyper-pop e già citata prima Some Kind Of Heaven, una bella botta ai nostalgici del passato ma che ha il suo perché, che fa il paio con Lights: tralasciando entrambi i video spettacolarmente lynchiani, siamo di fronte a puro e semplice pop fatto come gli dèi comandano. Ma, dopotutto, affiancarsi a produttori come lo storico Jonas Quant, ormai membro onorario della band, Stuart Price (Madonna, The Killers, Kylie Minogue) e Ariel Rechtshaid (Haim) non poteva portare a nulla di diverso. Dall'altro lato abbiamo brani come Rolling Stone Wish che principalmente hanno l'obiettivo di far rimbambire l'ascoltatore che passerà tutta la durata dei brani a chiedersi se sia la stessa band per tutti i pezzi oppure artisti diversi.

Il post-romanticismo, a tratti lirico, di brani come Perfect Timing Weight Of The World riporta in superficie l'oscurità e l'intensità di poche parole e suoni essenziali che arrivano dritti in quegli angolini della mente dove risiedono i pensieri più malinconici e nostalgici, quei testi estremamente personali che dimostrano come il mettere il proprio cuore in quello che si scrive e canta porta i risultati migliori. L'abitudine a narrare storie, a creare personaggi fittizi modellati su persone ed esperienze reali – come la Juliet di Rolling Stone – o la non meglio identificata figura retorica della "poliziotta" in Policewoman (poi vai a vedere e magari in realtà è solo una tizia vestita da poliziotta ad Halloween o in un festino privato, zan zan). Brani sensuali (mi limito a questa parola perché sennò cadrei nel volgare) come Slow, che lasciano davvero poco all'immaginazione. Brani che a volte sembrano fare il paio con quelli dei dischi precedenti: Wings, ad esempio, una ballad innovativa che sembra la gemella di Help o, volendo magari, la controparte esplosiva di The Crow.

Ma gli Hurts non sono solo questo. Riprendendo le parole dell'altro membro della band, Adam Anderson, con cui sono completamente d'accordo, Surrender non rappresenta una nuova partenza ma bensì un ritorno alle loro origini, soprattutto al primo disco, in un album dove sono davvero poche le canzoni che rappresentano uno stacco totale: Why Kaleidoscope sopra tutte. Questi brani... non so esattamente che definizione dare se non catchy, da sgranare gli occhi al primo ascolto per poi, al decimo, metterle come sottofondo per pulire casa in stile Mrs. Doubtfire. Due piccole chicche particolarmente degne di nota: Surrender – 1 minuto e 18 di pura ansia com'era Exile – con un coro femminile gospel da far venire i brividi, e Nothing Will Be Bigger Than Us che si può riassumere dicendo che è perfetta sotto ogni aspetto nel suo essere una tamarrata alla Calvin Harris.

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La migliore caratteristica di quest'album è proprio questa: l'inclassificabilità. Non è possibile relegare ad un solo genere, ad una sola categoria un disco che mixa al suo interno il loro classico synth-pop alla Depeche Mode anche se a volte il synth viene letteralmente oscurato dai cori, retaggi pseudo-rap del passato musicale di Theo e Adam, il funk-pop di Prince liricizzato e portato quasi all'esasperazione e dei brani quasi in acustica accompagnati solo da uno struggente pianoforte. Per non parlare di questo nuovo e raffinato vibe 80s, senza scadere nella banale e rozza dance music, che sembra creato apposta per loro, cucito sulla voce di Theo come se fosse una seconda pelle. Un disco diviso tra suoni semplici e suoni complessi dove la cura dei minimi dettagli è quasi maniacale come, ad esempio, mi piacerebbe sottolineare la conclusione dell'intero album che tutti dicono allegro e che termina invece con la sofferta e ripetuta parola pain.

È un disco che si lascia ascoltare senza troppi intoppi e problemi e raccoglie l'eredità dei precedenti più che dignitosamente. Una delle poche volte dove la tracklist è perfettamente equilibrata e ben distribuita, a differenza della struttura di alcune canzoni dove la voce eclissa totalmente la musica che manca di quelle parti strumentali che riempiono il brano. Che sia una scelta voluta o meno, il cantato di Theo è migliorato decisamente diventando pieno ed opulento, giunto probabilmente alla definitiva consapevolezza delle sue capacità vocali, complice anche l'uso largamente impiegato – positivamente, senza strafare e senza rischiare di restare senza voce in un ipotetico live – e ben accetto del falsetto. Soprattutto, è un disco che fa ballare e che porta a dondolarsi in un angolo in preda al dolore e alla disperazione l'attimo successivo. Tipicamente Hurts.

Qualcuno ha detto "so Hurts it hurts" e credo che sia senza dubbio la frase migliore da attribuire ad un album che è la rappresentazione della loro intera essenza.