Free Iggy Pop 6 settembre 2019
8.8

Recensire è un lavoro sporco, si sa. Intrinseche insidie derivanti da una critica per nulla nobilitante attendono in agguato le sentenze emesse dalla figura del recensore, in un perenne inseguimento che spesso rischia di rasentare i confini dello strafalcione intellettivo dovuto ad un primo e caldissimo approccio ad una qualsiasi opera. Un gioco che subisce un massiccio elevamento a potenza quando si ha a che fare con figure leggendarie, quasi mitologiche, appartenenti ad un unico pantheon della musica, come in questo caso Iggy Pop, specialmente nel momento in cui quest’ultimo è reduce dall’universalmente acclamato Post Pop Depression, album che avrebbe dovuto apparentemente marcare il ritiro del padrino del punk dalle scene. Eppure, al buon vecchio Iggy non andava poi troppo a genio l’idea di un pensionamento, nemmeno canonizzandolo in termini da manuale grazie ad un album che, seppur ottimo sotto ogni punto di vista, fosse anche molto standard o quantomeno prevedibile nelle vedute concettuali e caratteristiche del rock: una pacca sulla spalla troppo da impiegato del mese, poco da rockstar.

Sentendosi forse intrappolato e minacciato dai vicoli del dolce far niente successivi alla fatica del tour più recente, ha optato quindi per la strada dell’effetto sorpresa, liberando nuovamente sé stesso e il proprio estro creativo in un processo intuitivo all’insegna dell’intramontabile regola del “muoversi con la corrente”, il cui risultato è Free, un album che mescola a sonorità jazz, protagoniste indiscusse, elementi ambient incorniciati dalla voce di Iggy Pop profondamente immersa nella drammatizzazione di versi fluttuanti tra il poetico ed una scarna stravaganza comunque quanto più riflessiva possibile. Una riduzione così scientifica però non renderebbe in alcun modo giustizia ad un disco tanto peculiare, quanto esteriormente semplice sulla carta e nella scioltezza con cui il cantante si confida: arcani narrati al chiaro di luna, di cui si accetta il patto vigente di non risolverne le incognite a salvaguardia dell’incanto.

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L’omonima opener Free, risuonando come un taxi di Scorsese in rotta per i bastioni di Orione, accoglie l’ascoltatore nelle sue atmosfere jazz, lo affranca e purifica in vista di una mezz’ora a contatto ravvicinato con la leggenda. Segue Loves Missing, unico brano della raccolta in una terra più di frontiera che di mezzo con le parvenze rock esplorate in passato, sotto la guida trainante dei colpi di batteria e delle scosse di chitarra in toccata e fuga. Trovano invece spazio in Sonali scenici synth notturni accompagnati dal flusso di coscienza di un Iggy metodologicamente irrequieto tra i propri pensieri, prima di lasciare i riflettori al conclusivo pseudo assolo di tromba, interprete di rilievo secondo solo all’Iguana protagonista. Persino quando si sfiora il pericolo dell’assoluta monotonia ripetendo fino allo sfinimento il nome del più noto agente a doppio zero, James Bond, i versi sorprendentemente e a lungo andare si trasformano in un mantra con la stessa naturalezza e stramberia tipiche dei Bond di Roger Moore degli anni Settanta, merito anche del bridge stile judo chop a tre quarti del brano.

Una serie di canzoni che si conclude, senza alcun tipo di preavviso, nel misto punk misto redenzione western messicana di Dirty Sanchez, brano di metaforica critica del sistema capitalistico, quanto seguirà sarà però un completo stravolgimento strutturale del disco: le tracce della seconda metà di Free perderanno man mano sempre più costituenti caratterizzanti una qualsiasi melodia commerciale in senso lato, per mutarsi in atmosferici monologhi di un Iggy, un po’ oratore, un po’ cantore contemporaneo, scortato dall’eccezionale presenza scenica delle basi in costante trasposizione crepuscolare. Ipocrisie, avidità, utopie rapidamente esposte in Glow in the Dark dal proto-punk vengono innescate dal crescendo orchestrale dell'incrocio di tromba, batteria e sintetizzatori, tallonando il filo logico di una riflessione dilungata e successivamente ampliata in Page perché se « You've done it all before / You'll dread the encore » malgrado comunque « Wolves and sheep do rest / Not side by side, still, they rest ».

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C'è anche posto per meditare sulla condizioni sociali delle propria nazione recitando una poesia del 1970, ma quanto mai attuale, originalmente elaborata da Lou Reed, We Are The People, poco prima di tornare a focalizzarsi su un’ottica più individuale e personale ripercorrendo la base della prima traccia con i versi di slancio deciso contro il tempo tiranno scritti da Dylan Thomas in Do Not Go Gentle into That Good Night; liriche sentite che comunque non freneranno l’incessante incedere dell’oscurità che attanaglia nella sua morsa e sfida anche una leggenda al pari di Iggy Pop, ma questi ormai nella conclusiva The Dawn realizza di essere finalmente libero, dallo scorrere del tempo, dalle incertezze, dal far i conti con sé stesso.

Mettere di conseguenza su uno stesso piano Post Pop Depression e Free sarebbe un grave errore, tante sono le differenze alle fondamenta dei due lavori; tuttavia, nonostante le discrepanze, il collegamento semantico tra i due album è innegabile: l’ultima opera di Iggy Pop suona come l’epilogo, il senso di chiusa o la scena dopo i titoli di coda, che arricchisce quanto messo nero su bianco dal proprio predecessore anni prima, al punto da poterlo definire in chiave di reboot come il suo miglior (non) sequel, complici gli sfondi evocativi ed interessanti presentati durante la narrazione di questa trama malinconica. Nonostante infatti superare o, in ogni modo, accostarsi all'osannato disco del 2016 sembrasse possibilmente fuori pronostico né, tantomeno, un obiettivo inconsciamente imposto, l’Iguana, svincolandosi dalle concezioni ed aspettative anche parzialmente fomentate appunto da quello stesso gigante, è riuscita a sottrarsi egregiamente al giogo del successo e della conformità con un album singolare nella sua semplicità strumentale e profondità, facendosi così trovare pronta per una nuova alba lontano dagli occhi indiscreti della prevedibilità.

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