Hearts That Strain Jake Bugg 1 settembre 2017
5.4

Jake Bugg è un po' come quei partner con cui non riesci mai a chiudere del tutto, nonostante ti deludano costantemente.

E' questa la prima considerazione che sono riuscita ad elaborare dopo aver ascoltato diverse volte Hearts That Strain, quarto album in studio partorito dal giovanissimo prodigio di Clifton. Pubblicato il 1 settembre 2017 per Virgin EMI Records, a solo un anno di distanza dal confuso e deludente On My One, questo disco è arrivato piuttosto in sordina, senza che venissero adottate grandi mosse pubblicitarie, soltanto la pubblicazione di un singolo ad agosto, How Soon The Dawn e l'annuncio di un tour europeo che partirà ad ottobre e toccherà (per ora) soltanto una manciata di stati.

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Tanto per cominciare, Hearts That Strain è stato registrato a Nashville, che si trova a metà strada tra l’America centrale e la East Coast ed oltre ad essere la capitale del Tennessee è anche la prima città in assoluta che ci viene alla mente quando pensiamo alla musica country. E' composto da undici tracce, ha una copertina così brutta che per sceglierla il nostro Jake si deve proprio essere messo d'impegno e ciò che mi sento di dire prima di addentrarmi un po' più a fondo è che ne potevamo benissimo fare a meno.
Ma procediamo per gradi. Innanzitutto, il disco potrebbe idealmente essere suddiviso in due parti: la prima più allegra mentre l'altra decisamente più cupa e malinconica. A fare da spartiacque troviamo "Waiting", un'improbabile duetto dai sapori soul che pare uscito direttamente da un piano bar degli anni '60 cantato in discutibile compagnia di Noah Cyrus, sorellina minore di Miley che, a quanto pare, nell'ultimo anno ha dominato le classifiche mondiali (nonostante io fossi totalmente all'oscuro della cosa). Una scelta che l'artista avrà certamente fatto con il cuore, non c'è dubbio.
Il problema fondamentale di Hearts That Strain è che non è nemmeno brutto di per sé, è proprio inutile.
So che può sembrare assurdo leggere una cosa del genere, ma quanto meno in On My Own c'erano delle scelte così pacchiane (spero ricordiate tutti quell'enorme capolavoro di "Ain't No Rhyme", in cui il piccolo Jake aveva pensato fosse una buona idea darsi al rap) che ti facevano aizzare le antenne e pensare: "cosa minchia sto ascoltando?".
Qui non c'è nulla di tutto ciò, i pezzi ti scivolano addosso uno dopo l'altro senza lasciare segni. Insomma, inutile e terribilmente noioso. Sono certa che la prossima settimana ci saremo tutti dimenticati dei brani che contiene, perché purtroppo non c'è niente di memorabile. Per tutti i suoi 33:25 minuti non si fa altro che rimanere in attesa che succeda qualcosa, che arrivi quel pezzo che ti fa pensare: "cazzo, è questo che stavo aspettando, questa è la punta di diamante del disco", ma purtroppo questo momento non arriva mai. Ci sono un paio di pezzi carini, certamente, ma comunque niente di fenomenale. Per  mio gusto personale "How Soon The Dawn"  ("I spent time in your head"), scritta in collaborazione con Dan Auerbach dei Black Keys e "Every Colour In The World" ("I'm starting to say same things to you every day, but that's alright 'cause you're not listening anyway") sono le tracce che si difendono meglio e si trovano rispettivamente all'inizio e in chiusura; nel mezzo il nulla o poco più. Nemmeno il ritmo incalzante di "Burn Alone" ("If you are the Jesus with the cross to bear early gets the heaven he ain't going nowhere") riesce a risvegliare dal torpore generale.
Non solo dal punto di vista musicale, ma anche per quanto riguarda i testi sembra che Jake abbia fatto un enorme passo indietro. Sono la persona più romantica di questo mondo e penso che senza le canzoni d'amore i musicisti sarebbero rovinati, ma da uno che in passato ha trasportarci nei sobborghi più grigi e disfunzionali della periferia industriale inglese, con tutta la crudezza che ne consegue, mi sarei aspettata qualcosa di meglio di "I know that I want you forever" ("Bigger Lover") oppure "But you are my star" ("This Time").

Jake ha esordito nel 2012 e da allora non si è più fermato, sfornando quattro dischi nell'arco di cinque anni, una media impressionante se si pensa che all'epoca aveva diciotto anni e ora ne ha soltanto ventitre. Sono numeri questi che potrebbero tranquillamente adattarsi a una boyband di plastica nata con il solo scopo di vendere il più possibile, non ad una fra le più brillanti promesse che l'indie britannico ha sfornato nell'ultimo decennio. L'impressione è che nel corso degli anni abbia perso completamente la strada, che nemmeno lui sappia bene dove voglia andare a parare con la sua musica.
Certo è che quando sei solo un adolescente di provincia e dal nulla i media di tutto il mondo iniziano a parlare di te come del nuovo Bob Dylan rimanere lucidi e continuare a pensare esclusivamente alla propria musica deve essere più facile a dirsi che a farsi. Forse è più semplice cavalcare la cresta dell'onda e battere il ferro finch'è caldo, anche se a volte questo può significare dare alla luce dei prodotti non proprio qualitativamente elevanti. D'altro canto, è vero che si tratta di un artista ancora giovanissimo, che ha davanti tutta la vita per maturare e ritrovare ciò che di buono aveva fatto conoscere all'epoca del suo esordio. Una nuova "Two Fingers" quasi sicuramente non vedrà mai la luce, di questo siamo tutti consapevoli, ma questo non significa che non si possa tornare a tali livelli; c'è solo da sperare che decida di non adagiarsi, ma di mettersi di nuovo in gioco perché altrimenti rischia di perdere la fiducia di tutti coloro che avevano imparato ad apprezzarlo.

Io, dal canto mio, non posso fare altro se non mettermi le cuffie, premere play, aspettare che partano le prime note di "Seen It All" e ricordami perché, ormai parecchio tempo fa, mi sono follemente innamorata della musica di quel ragazzino che non sorrideva quasi mai.