Violet Drive Kerala Dust
7.9

La dinastia dei Chera è una delle più antiche dell’India: nel IV secolo a.C. si insediò nella regione meridionale del Paese, precisamente in quella fascia allungata di territorio che oggi corrisponde allo stato del Kerala. L’oceano Indiano che ne bagna le coste occidentali favorisce la crescita delle piante di cocco tant’è che, secondo la tradizione, il nome Kerala deriverebbe non dal nome dei dominatori, ma dall’unione di due parole: Kera (pianta di cocco) e Alam (terra).

Edmund Kenny, frontman del trio inglese Kerala Dust, ha insegnato in una scuola di musica indiana per sei mesi per un’organizzazione di beneficienza, ma non è mai stato nel Kerala. Da lì proveniva un suo collega, proprio da quella regione che avrebbe dato il nome alla sua band. I Kerala Dust sono tre ragazzi inglesi che nel 2016 hanno deciso di iniziare a fare musica. Edmund presta la voce e le mani per i synth, Harvey Grant suona le tastiere e Lawrence Howarth è alla chitarra. Violet Drive è il loro secondo album.

Violet Drive ha avuto una genesi complicata dovuta, non tanto ad una crisi d’ispirazione, quanto invece ad una ricerca ossessiva del suono. I tre si sono trovati a registrare una montagna di demo che apparivano tutte troppo simili al precedente debutto Light, West. La costanza e il lavoro però hanno rinvigorito il loro stile: dalla scrittura di brani lunghi i Kerala Dust sono passati a canzoni più brevi – al massimo cinque minuti – che partono sempre da un’impronta americana e folk, ma si spingono decisamente oltre. La cover dell’album sembra dire proprio questo: un’auto schiantata contro una pianta in fiamme che rappresenta l’unica fonte luce di una notte senza stelle. Moonbeam, Midnight, Howl è la colonna sonora notturna della fine di un viaggio e dell’inizio di una nuova avventura. Non esiste batteria, ma solo elettronica, synth e una chitarra psichedelica di Pink Floydiana memoria.

Il senso del viaggio è uno dei principi cardine di questo disco, la transitorietà ridondante dei ritmi e dei raccordi di chitarra è lo specchio di una registrazione itinerante avvenuta tra le Alpi svizzere e la Germania. La title track Violet Drive costituisce l’inizio vero e proprio di una gita nell’Europa centro-orientale: una carovana in lento movimento dalle montagne verso i boschi germanici, accompagnata dal canto basso e ruvido di Edmund.

I Kerala Dust non hanno mai fatto mistero di prendere ispirazione dalle colonne sonore dei film. Il faro in questo senso è l’Italia con Ennio Morricone e la musica degli spaghetti western. Per questo secondo lavoro però la bussola si sposta prima verso est, poi verso ovest e via dritto alla Berlino di Wim Wenders. Red Light è la prima tappa: un cantato che oscilla tra la sacralità di Nick Cave e la ruvidezza di Tom Waits e l’ingresso di suoni nuovi. Ottoni o solo riproduzione sintetiche di essi, cambia poco. E una chitarra semiacustica che resta l’unica traccia di Americana.

Si muove sulla stessa linea Jacob’s Gun, ma in questo caso è la linea melodica del ritornello a fare la differenza. I tocchi di synth restituiscono eleganza a un pezzo altrimenti vicino folk, mentre la chitarra elettrica dissonante sembra a tratti condurre la canzone sui binari del blues e del neo-soul.

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Violet Drive è un album profondamente europeo, un disco capace di racchiudere mondi e città diversi tra loro facendoli dialogare. Salt è uno degli esperimenti più riusciti. Una canzone tribale, sembra quasi che i tre la suonino e la cantino intorno al fuoco. Un gospel profano di matrice euroasiatica. Le percussioni non elettroniche si confondono col battito di mani, il canto è corale e ripetitivo, ma soprattutto è la chitarra, prima folk, poi elettrica a dettare la linea del pezzo. La canzone cambia col passare dei secondi, via via l’elettronica prende il sopravvento.

I’d like to howl
I’d like to howl to the sound of drums

Tutto appare molto diverso, ma sono i dettagli a collegare le varie tappe del disco. I versi del ritornello di Pulse VI potrebbe essere benissimo quello di Salt e invece si tratta di una traccia completamente diversa, quella dove l’aria berlinese è più evidente. Krautrock e psichedelia a base di sintetizzatori, Can e Kraftwerk insieme. Il testo racconta il crepuscolo di un amore, la nostalgia per un’illusione svanita.

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Still There è forse il piccolo capolavoro di questo album: il punto d’incontro tra l’Europa germanica ed elettronica e l’aplomb inglese. Gli accordi di tastiera iniziali ricordano infatti pericolosamente i Radiohead di Everything in Its Right Place, ma poi tutto evolve in un trip elettronico. Una canzone nata come metodo per sputare fuori il veleno, un modo per Edmund di tradurre in musica l’ansia e le angosce. La presenza quasi impercettibile della chitarra torturata di Lawrence ipnotizza e rende il tutto ancora più drammatico.

Il richiamo della madrepatria diventa sempre più forte nell’ultima sezione dell’album, a partire dall’elegantissima Future Visions. Le radici sono quelle del britpop inglese, la ritmica quella degli Arctic Monkeys del 2013, il suono di chitarra invece è dannatamente blues. Anche la successiva Engel’s Machine rimane nello stesso territorio, seppur acquistando un tono più nostalgico anni Ottanta. Gli accordi sincopati dei sintetizzatori accompagnano il canto soffuso, le note in palm mute dettano la linea di basso e la melodia.

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Tra i dodici titoli della tracklist ne spiccano due in italiano. Il primo, Nuove Variazioni di una Stanza, è un brano strumentale che spazia tra la psichedelia e l’elettronica. I sussurri distorti trasportano l’ascoltatore in una qualsiasi città europea, potrebbe essere Praga come Berlino, ciò che non manca è la nebbia. E ovviamente è notte.

Fine della Scena è invece una conclusione atipica per la propria costruzione, basti solo pensare agli accordi di chitarra acustica con cui si apre il pezzo. La voce di Edmund canta una melodia malinconica ben definita e a poco a poco subentra anche l’elettrica. Sì, dopo tutta la strada percorsa, i Kerala Dust si rifugiano in una ballatona in crescendo. Il finale è giustamente epico, un’esplosione di synth, chitarra e batteria, che dimostra la capacità sorprendente del trio di riuscire a suonare come Arcade Fire e Portishead allo stesso tempo.

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I Kerala Dust trovano una loro strada perdendosi tra i meandri dell’Europa Centrale, il loro secondo album si smarca dalla linearità del debutto. Violet Drive è un susseguirsi di suggestioni musicali, cinematografiche e, perché no, letterarie. Un pellegrinaggio senza una meta ben definita. Chi ascolta deve scendere a patti con un movimento costante - talvolta ripetitivo e alienante - e con la polvere che le ruote del carro e i tasti dei sintetizzatori sollevano. D’altronde la polvere i tre inglesi la portano incisa nel loro nome.