When You See Yourself Kings of Leon 5 marzo 2021
7.4

L’ottavo lavoro dei Kings of Leon già prima della pubblicazione si presentava come una tappa storica per il gruppo e per il mondo della musica in generale. I motivi che inseriscono questo album direttamente nella storia, senza nemmeno la necessità di ascoltarlo, sono due. Il primo di questi è stato svelato dai diretti interessati in una delle interviste di promozione tenute nelle scorse settimane: durante le registrazioni di When You See Yourself non sono volati stracci e pugni come di solito era avvenuto in passato. Merito della maturità, del produttore?

Il secondo motivo, quello più serio, riguarda la modalità di vendita. Attraverso la piattaforma YellowHeart la fetta di pubblico più accanita può acquistare tre versioni speciali dell’album, una delle quali addirittura fornisce la possibilità di accaparrarsi un posto nel golden circle in uno dei concerti del tour che i Followil faranno nel 202? (sta al lettore sbizzarrirsi e prendersi il rischio di fare una previsione). Dove sta la novità? Ciascuna edizione speciale può essere comprata solamente per mezzo di NFT, Non Fungible Token, una criptovaluta che, come si evince dal nome, non è intercambiabile come, invece, lo è ad esempio il Bitcoin. Questo è il primo caso nella storia della musica di un album acquistabile con criptovaluta.

The Bandit è stato il singolo con il quale la band americana ha annunciato l’uscita del suo nuovo disco, un brano che ha immediatamente fatto sperare il pubblico in un ritorno alle vecchie sonorità abbandonate col precedente WALLS (2016). Il settimo album era stato il primo a essere registrato senza lo storico produttore Angelo Petraglia, sostituito dal pluripremiato Markus Dravs. Cresciuto sotto l’ampia e sfaccettata ala di Brian Eno con il quale ha collaborato in Viva la Vida dei Coldplay, ha prodotto e portato al successo i Mumford & Sons (Sigh No More, Babel) e ha affiancato gli Arcade Fire nella registrazione di The Suburbs e, in parte, di Reflektor. La sua mano si era notata soprattutto nel campo delle sonorità, differenti dal classico stile KOL. Accolto freddamente dalla critica, WALLS ha poi dimostrato tutta la sua bontà nelle performance live, tant’è che il tour omonimo è da tutti considerato il migliore della carriera di Followill e co.

Questo primo singolo caratterizzato dal tipico storytelling surreale e infarcito di citazioni bibliche, nella struttura rimanda ai Kings dei primi anni Duemila, quelli di Because of the Times per intenderci. Tuttavia è un’illusione, questa seconda traccia contrasta fortemente con la quella di apertura che dà il titolo all’album. When You See Yourself, Are You Far Away inizia e prosegue con un arpeggio di chitarra che ammutolisce solo nel ritornello dove il synth prende il sopravvento. Il primo brano è anche il più lungo e complesso musicalmente, difficile da apprezzare al primo ascolto, immediata invece è la comprensione della direzione del testo, rivolto tutto all’autoriflessione, tema principale di gran parte dell’album. È l’osservazione dall’interno che genera in parte quel piacevole contrasto tra nuovo e classico che si avverte all’inizio del disco, i Kings of Leon che si scrutano e mescolano passato e presente.

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Se si vuole analizzare questo ottavo album in termini di sperimentazione è facile individuare nell’utilizzo di suoni elettronici, in particolare del synth, il bersaglio su cui porre l’attenzione. A Wave si apre come una ballata lenta e si trasforma piano piano in un pezzo da arena rock dove però la voce di Caleb, soffocata troppo dalla produzione, non riesce a trasmettere quanto il ritornello meriterebbe. Per quanto riguarda 100,000 People il discorso è completamente diverso, forse vale proprio l’opposto.

Rake at the moon where the river flows
Cut from the cloth of the winter's cold
Bound by the voice that no one hears
I've been around the way for years
Stray from the heart the more that you know
All gussied up with no place to go
Table side the one of your dreams
Get what you want and not what you need

I versi della prima strofa si legano perfettamente al mood della traccia in midtempo con note di basso ripetitive e schitarrate malinconiche a dettare il ritmo come non avveniva da Fans. È uno dei pezzi migliori dell’album ma anche quello che più di tutti lascia l’amaro in bocca per un ritornello che non funziona come dovrebbe, non per colpa del synth che entra ancora una volta prepotentemente, ma per una scelta lirica e stilistica che svilisce lo stile dell’intero brano. La ripetizione ossessiva di «You do» abbassa la tensione emotiva. Un vero peccato per quella che poteva essere una delle canzoni migliori della band.

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Uno dei difetti di questo album risiede nei pezzi che si è soliti definire filler per via di un carattere poco marcato e di un sapore insipido. Si sta parlando di due canzoni molto differenti tra loro poste fortunatamente non in posizione vicina. La prima è Golden Restless Age, un brano rock nostalgico, che a tratti ricorda quasi gli Interpol, in cui i KOL danno l’impressione di divertirsi senza osare. Nonostante ciò, è un pezzo che funziona almeno in parte, in particolare nel tappeto elettronico che fa risaltare gli altri strumenti, come nel breve assolo distorto che anticipa l’ultimo ritornello. L’altra è la ballata Claire & Eddie. Una traccia che tratta metaforicamente il tema del rapporto tra uomo e natura mascherata da canzone d’amore. Poco incisiva, la più debole dell’album. Suggestivi i versi «apocalittici» del ritornello.

Ooh fire's gonna rage if people don't change
Ooh a story so old, still so original

Tra sesta e nona traccia si trovano invece due note positive. Time in Disguise rappresenta la fusione (quasi) perfetta tra i vecchi Kings of Leon e quelli nati dal sodalizio con Davis. Uno dei ritornelli più efficaci dove si percepiscono le stesse atmosfere di Only by the Night con l’aggiunta di quegli elementi elettronici figli della nuova fase, gli stessi che caratterizzavano il settimo album e le sue principali hit e che qui ritroviamo sparsi in quasi tutte le tracce. Questa volta però la voce di Caleb si erge e resiste.

L’ottavo brano era in realtà già noto, pubblicato sotto il lockdown in versione acustica e con un altro titolo tratto dai versi del ritornello, Going Nowhere.

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Supermarket è a suo modo profetica, scritta prima del Covid, sembra addirittura nel 2009, dà una descrizione malinconica della situazione attuale. Ironicamente il supermercato è proprio il luogo più frequentato, forse l’unico, durante i vari periodi di lockdown. La nuova versione convince soprattutto per la musicalità delle strofe che ricavano energia emotiva dalla geniale linea di basso di Jared. Reminiscenze di I Want You, ma anche questa volta senza raggiungere le stesse vette per via della lunghezza della traccia e di un ritornello che stranamente da ciò che accade solitamente, risulta meno potente rispetto alla versione acustica.

Proprio le linee di basso sono fin dalle origini un marchio distintivo dei KOL, in Stormy Weather ne abbiamo l’ennesimo esempio. Un pezzo che oscilla tra il funky e l’indie rock in cui i fraseggi di chitarra elettrica contornano e rinvigoriscono le strofe e nel quale trova spazio un Jared Followill al suo meglio, è lui il King of the Rodeo in questo caso. Il suo basso crea e trasmette quella sensazione di divertimento che non si provava dai primi due album. Una delle migliori dell’album e non a caso è stata scelta come nuovo singolo.

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I Kings of Leon hanno da sempre regalato le maggiori emozioni nelle sezioni conclusive dei loro dischi, basti pensare a brani come Arizona, Cold in the Desert, On the Chin o, senza indietreggiare troppo, la sofferta WALLS. In When You See Yourself il fenomeno si ripete e due delle tracce più convincenti sono la decima e l’undicesima. Echoing è senza dubbio il brano migliore per energia, suono e testo. Fin dal primo ascolto, dopo appena dieci secondi, si riconosce come una canzone dei KOL ed è inevitabile lasciarsi andare a un "finalmente!" Le chitarre sporche, gli accordi veloci, il ritornello urlato e quella sensazione ambigua tra spensieratezza e nostalgia che ha reso la band dei Followill una delle più importanti nel panorama internazionale rock.

Fairytale è una ballata d’amore solo in apparenza, è più che altro una canzone di speranza che non può lasciare impassibili. Potrebbe essere considerata come il lato b di WALLS dove, invece, le mura e le certezze crollavano inesorabilmente in un contesto cupo e pessimistico. Questa undicesima traccia beneficia di un minutaggio minore e di una varietà stilistica che la titletrack del 2016 non possedeva. Inizia quasi acustica con la voce di Caleb offuscata edì in lontananza e col passare del tempo si costruisce e si riempie. Il basso che subentra al decimo secondo è un evidente omaggio a Lou Reed. Walking on the Wild Side si fa strada in sottofondo nella testa di chi ascolta generando un’inaspettata sensazione di nostalgia e rilassamento, soprattutto quando poi nel finale subentrano gli archi e sembra di essere stati catapultati negli anni Settanta.

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La prima associazione mentale che si tende a fare quando si pensa alla musica dei Kings of Leon, perlomeno per il sottoscritto, è quella del viaggio. L’ascolto di un loro disco è assimilabile alla lettura di un romanzo come On the Road di Kerouac o di un road movie, magari ambientato nella Route 66. O più semplicemente, senza scomodare paragoni letterari troppo elevati, una gita in macchina con gli amici. Il divertimento e la carica energica dell’andata passata con il tettuccio aperto, gli occhiali da sole e le braccia fuori dal finestrino per farsi accarezzare dal vento. Ragoo, Sex on Fire, Fans, quindi Echoing. Poi c’è il viaggio di ritorno in notturna, con te che sei l’unico sveglio perché alla guida dell’auto ed il solo col privilegio di poter essere cullato dalle note del basso e dagli arpeggi di chitarra mentre rifletti e provi già nostalgia per quanto hai appena vissuto, ipnotizzato dalle luci dei lampioni che scorrono velocemente ai lati della strada. Arizona, Manhattan, Pickup Truck, quindi Fairytale e 100,000 People.

When You See Yourself è un album che manca un po’ di quell’alternanza emotiva dei lavori passati, pur essendo tuttavia più vicino allo stile dei KOL anni Duemila di quanto lo fosse il suo predecessore del 2016. Il connubio tra suoni vecchi e nuovi è qui realizzato in maniera più coerente e sapiente, tuttavia in qualche caso la ricercatezza soffoca il lato emotivo che è invece una cifra essenziale della band americana. Sono presenti pezzi che si riascolterebbero in loop, altri che lo sono in maniera minore e che restano in mente più per ciò che avrebbero potuto essere che per quanto di buono offrano. L’esempio per eccellenza è 100,000 People, vittima di un ritornello troppo debole e mal gestito che in parte demolisce una delle canzoni più belle. Liricamente il discorso è analogo, si alternano testi coinvolgenti ad altri in cui la ricercatezza rischia quasi di sconfinare nel nonsense. Non mancano però anche in questo caso tracce da segnalare positivamente anzi, il loro carattere introspettivo rappresenta una novità estremamente interessante.

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L’ottavo disco dei Kings of Leon è un porto sicuro dove la band si diverte, sperimenta, gioca senza rinunciare all’emotività e recupera in parte quell’energia garage rock che non si sentiva da tempo. Non prevale la delusione, semmai un pizzico di rammarico per qualche occasione sprecata, perché tutto sommato When You See Yourself è un disco che funziona e che a sprazzi regala delle belle sensazioni. La laboriosità e la lunghezza di gran parte delle tracce segnano una volontà stilistica e sonora ben definita che rende ancora più forti ed energici quei pochi pezzi più radiofonici. Questo album suona come una rassicurazione, i Kings of Leon  sono ancora vivi ed in grado di suonare e regalare viaggi emotivi come un tempo. Li ritroviamo meno cupi e quella che torna indietro ascoltandoli in questo 2021 è una forte sensazione di speranza.

And the words always get in the way
It cuts you down just the same
I can't wait to see what you find
And the sun will find its place to shine