Here Comes the Cowboy Mac DeMarco 10 maggio 2019
6.8

Dieci volte.

Dieci lunghe, interminabili volte.

Dieci sono i lavori che, tra release ufficiali e raccolte di demo, Mac DeMarco ha firmato dal 2012 ad oggi.

Dieci sono gli anni che passati dal suo primo EP, pubblicato con il nome di Makeout Videotape.

Dieci, però, sono anche le volte in cui il cantautore canadese ripete come un mantra la stessa identica frase, «Here comes the cowboy», in apertura al suo nuovo disco.

Here Comes The Cowboy, arriva il cowboy, appunto, è il quarto (anomalo)  album di DeMarco, il primo sotto l’etichetta che lui stesso ha fondato lo scorso anno, la Mac’s Record Label. Ora, prima di addentrarmi nei meandri di queste 13 (+1) tracce, mi sento in dovere di dire che sono in difficoltà; sono in difficoltà perchè Mac si è veramente fatto in quattro, ha scritto i pezzi on the road, li ha registrati in due settimane all’inizio del 2019, ha persino suonato tutti i (pochi) strumenti presenti nel disco, ci ha messo veramente tutto se stesso ma qualcosa è andato storto.  

Veniamo all’album: «rappresenta un’interpretazione dell’idea di cowboy da parte di qualcuno che di cowboy non sa nulla», ha spiegato. Vi sbagliavate di grosso, dunque, se dal titolo vi eravate immaginati colpi di pistola e duelli sotto il sole che brucia la pelle, perchè di quel mondo, dei vecchi film western, Mac salva forse soltanto il ritmo cadenzato della prima traccia, Here Comes The Cowboy. Così me lo immagino venire verso la telecamera in sella al suo cavallo al trotto, a ripetere ossessivamente “arriva il cowboy” per tre minuti (sì, dice solo quello), ma Mac non è il tipo da Camperos e jeans a vita alta, Mac porta t-shirt, berretto e salopette e coi cowboy non c’entra assolutamente niente. E si sente.

DeMarco non ha l’aria da macho, nè la faccia tosta di farti credere che ci penserà lui a salvare la situazione. Quello che ha tirato fuori dalla metafora del cowboy è quindi tutto l’opposto di quello che logicamente ci si aspetterebbe: non è un album spavaldo e manca qualsiasi voglia di apparire (perchè, ammettiamolo, i cowboy un po’ se la tiravano). Al contrario Here Comes The Cowboy è un lavoro molto lento, calmo ed essenziale; Mac ha spogliato gli arrangiamenti di tantissimi elementi, per salvare solo una chitarra, un piano e poco più. D’altra parte non è una novità per l’artista, che già in This Old Dog aveva messo da parte molte delle sonorità sperimentali di 2 e Rock N Roll Night Club.

A dirla tutta credo che per Mac sia una questione di identità: i suoi ultimi due album sono gli unici per i quali DeMarco ha scelto di non utilizzare una sua immagine come copertina ed anche i video dei singoli estratti finora da Here Comes The Cowboy mostrano protagonisti, per così dire, sfigurati. Non so cosa gli passi per la testa, se siano i trent’anni che incombono o semplicemente una maturazione artistica, ma Mac DeMarco sta cercando una nuova strada da percorrere. Il risultato è un disco intimo, di chiara ispirazione beatlesiana, farcito di una buona dose di malinconia e altrettanto disagio esistenziale, come, senza troppi mezzi termini, racconta in Nobody e Finally Alone ...  e i titoli dicono tutto.

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Certo, non mancano i momenti di ilarità, perchè DeMarco è uno che in fondo non si prende mai troppo sul serio; così inserisce a metà disco Choo Choo, come il fischio dei treni, che sarebbe stata una meraviglia accanto ad I Am The Walrus nel Magical Mystery Tour dei Beatles. Anche la chiusura dell’album, Baby Bye Bye, fa eccezione all’umore grigio che permea l’album: con un inizio che pesca a piene mani dal«goodnight ladies, ladies goodnight» di Lou Reed, ed un finale che ricorda il cantato di Marc Bolan all’epoca dei T-Rex, risolleva un po’ le sorti di questo lavoro.

I più attenti avranno pure notato che proprio l’ultima traccia ha una durata assurda per essere un brano di Mac DeMarco, che raramente si spinge oltre i confini dei 3 minuti e mezzo. C’è qualcosa che non torna: una metropolitana, un treno, una voce che parla giapponese e una inglese, ed eccola lì: la ghost track.

Per me è questa la vera esplosione del disco, il momento in cui finalmente Mac DeMarco si rimbocca le maniche e rimette insieme i pezzi di un puzzle che aveva sparso per i brani precedenti: le sonorità funk che fanno capolino qua e là (Finally Alone) e la slide guitar di All Of Our Yesterdays trovano una ragione d’essere in una traccia che, se volessi azzardare un paragone, definirei come un incontro tra la ritmica di Fame (forse fin troppo simile a Fame) e la grinta di James Brown. Forse quello che manca in tutto il resto dell’album, e che ritrovo nel brano finale, è una direzione, un’idea di fondo, qualcosa che mi faccia dire “questo è Mac DeMarco”.

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In tutta sincerità non penso che questo album sarebbe uscito con tanta facilità se Mac non avesse fondato la sua etichetta. Forse gli serviva uno spazio in cui provare ad essere veramente se stesso, in cui potersi permettere di fare un po’ come avrebbe voluto, ma Here Comes The Cowboy si spinge troppo oltre fino al punto di perdere la bussola. Se posso apprezzare il tentativo di essere più spontaneo e meno studiato, non riesco proprio a non pensare che avrebbe fatto meglio a prendersi più tempo e a dare più sostanza alle sue canzoni. I momenti migliori dell’album, quelli in cui torna a navigare i mari del pop psichedelico a cui ci ha abituato, come All Of Our Yesterdays, Choo Choo e Baby Bye Bye, esulano dalla lentezza, ai confini con la monotonia, del resto del disco e sono con tutta probabilità gli unici pezzi veramente memorabili dell’intero lavoro.

In definitiva, ho sentito molto la mancanza di Mac DeMarco, lo spirito libero della musica indie, con il suo jingle-jangle e la sua aria allucinata. Spero solo che in futuro possa trovare un equilibrio tra quello che è stato finora e la sfera intima che ha voluto creare con Here Comes The Cowboy.

Mac DeMarco sarà live in Italia l'8 luglio 2019 al Circolo Magnolia di Milano!

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