Sono passati 7 lunghi anni da Delta (2018), ma i Mumford & Sons sono ufficialmente tornati: lo scorso 28 marzo è infatti uscito RUSHMERE, il quinto lavoro in studio della band inglese. Il primo senza un elemento caratterizzante come Winston Marshall, uscito dalla band nel 2021 dopo aver ricoperto dagli esordi il ruolo di prima chitarra e padrone del banjo che aveva fatto le fortune dei primi Mumford. Proprio nello stesso periodo era infatti arrivato anche il primo disco solista del cantante e leader Marcus Mumford, a rimarcare il periodo tumultuoso che la band stava vivendo.
Nonostante una perdita di questo tipo potrebbe far pensare a cambi di direzione ancor più netti o stravolgimenti, la vera notizia è la volontà dello stesso Marcus Mumford e soci di riconciliarsi con le origini folk della band. Una sorta di ritorno alla normalità dopo un periodo burrascoso, per far emergere ciò che è successo negli ultimi 10 anni ma anche riabbracciare i suoni e le atmosfere che li avevano lanciati in cima.

La ricerca delle proprie origini si manifesta anche nel titolo stesso del disco. Rushmere è infatti il nome di uno stagno al centro di una zona verde di Wimbledon, sud di Londra, sulle cui sponde avrebbe originariamente preso forma il progetto Mumford & Sons. La produzione è stata affidata a Dave Cobb che ha condotto la band, in quelli che hanno loro stessi definito i "due anni più produttivi che abbiano mai vissuto", a confermare l'RCA Studio A di Nashville come studio di registrazione, ancora una volta con l'idea di ancorare il disco alle radici del folk.
Il brano scelto per introdurci al nuovo album è Malibu, una ballad malinconica pubblicata anche come singolo che contiene tutti gli elementi di quello che vorrebbe essere il disco. Un testo romantico, un'apertura dolce e intima per poi arrivare ad una svolta in cui Marcus grida disperato.

Sul medesimo tema delle relazioni e dell'amore travagliato, Caroline è il primo dei brani a metà del disco. Ammicca alla ben più nota ballata country quasi omonima di Neil Diamond, ma non riesce veramente mai a cambiare passo e dare la sferzata decisiva.
La title track Rushmere è ovviamente il simbolo delle intenzioni della band: il ritorno al folk, con ritornelli urlati sul ritmo incalzante di chitarre e banjo. Probabilmente è il brano più riuscito perché propone una sorta di new folk e permette così di sfruttare il pieno naturale potenziale della band e al tempo stesso di alleggerire un genere dal sapore intrinsecamente retro. Il valore del brano emerge anche dalle numerose collaborazioni di cui è il frutto: Natalie Hemby, musicista country, e Greg Kurstin, produttore e cantautore, sono co-autori del testo, mentre Matt Menefee dei Mountain Heart, band country/jazz/folk pluri-nominata ai Grammy, è al banjo.

Si apre poi una sezione in cui è la malinconia a farla da padrone. C'è un po' di neo soul e di blues in Monochrome, che tanto ricorda le atmosfere di Michael Kiwanuka. Dello stesso mondo fa parte anche Where It Belongs: voce (con controcanti nei momenti salienti), chitarra e pianoforte. Questo è il terreno sui cui Marcus probabilmente si esprime al meglio. E anche Anchor, scritta da Justin Young dei Vaccines, cammina sullo stesso tracciato
Sorprendente invece l'occhiolino al desert rock e agli scenari western in Truth: ampio spazio alle chitarre decisamente più rock rispetto alle classiche produzioni della band e ad un ritornello ripetuto per quasi la metà del brano. Indubbio l'intervento del produttore Cobb, non a caso di Nashville, geograficamente perfetto per le sensazioni descritte precedentemente.
Si volta pagina con Surrender caratterizzata da un ritmo decisamente più incalzante sin dalla prima strofa sussurrata, gli strumenti crescono di intensità e con essi la voce di Marcus. La sensazione è quella però di un cambio di passo deciso che non arriva mai.
Sebbene stilisticamente sia molto diversa, sulla stessa lunghezza d'onda tematica troviamo invece Blood On The Page che vede la partecipazione della cantautrice Madison Cunningham, con cui Mumford inscena un duetto che sa di resa di fronte alla lunga riflessione sulle relazioni compiuta nell'arco del disco.

La chiusura del disco spetta a Carry On, al sapore di riflessione introspettiva e di ciò che ognuno di noi si ripete come un mantra nei momenti più difficili di fronte a qualcosa che sembra più grande di noi. Purtroppo, di nuovo, senza particolari sussulti o cambi di marcia.
I primi due album Sigh No More (2009) e Babel (2012) li avevano rapidamente portati al vertice, anche grazie ad un genere - il folk - che ben poche volte nella storia era stato presentato in una forma comprensibile e accessibile alla massa (nonostante la tautologia insita nel nome stesso del genere per cui dovrebbe naturalmente appartenere alla gente).
Il terzo lavoro Wilder Mind (2015) aveva segnato un cambio di passo e di genere necessario per non ricadere nella banalità e nella ripetitività e rimane ad oggi il disco probabilmente più bello e interessante dei Mumford. Il successivo Delta (2018) era rimasto sulle stesse lunghezze d'onda del precedente, con qualche citazione e riferimento assolutamente contemporaneo per "svecchiare" la loro produzione.
Infine, come spesso accade - a maggior ragione in una carriera ormai ventennale -, il passo successivo può nascondere delle insidie: riconciliarsi con le proprie origini o continuare ad esplorare nuovi orizzonti e porsi nuovi obiettivi?
Ecco, i Mumford non sono riusciti a compiere un passo deciso verso alcuna delle due direzioni. I riferimenti al folk si sentono, ma non abbastanza, così come sembra timida la volontà di introdurre qualcosa di contemporaneo, frutto dell'esperienza dei membri della band. A salvare il disco ci sono la solita vocalità e la grande capacità interpretativa di Marcus Mumford, oltre ad alcuni brani ben riusciti: il prossimo passo sarà probabilmente decisivo per farci capire se RUSHMERE è un passaggio naturale verso una nuova versione della band o uno degli ultimi colpi in canna.
