Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, è accasciato scompostamente accanto alla grande finestra del salotto, un piede ancora contro il vetro. Sembra quasi che sia strisciato dentro casa passando proprio per quella finestra chiusa, mentre un paio di lattine di birra emergono dal disordine generale della stanza. Poco distante da lui, sul lato destro, qualcuno sta guardando fuori, come se ne avesse avuto abbastanza di guardare il cantautore apparentemente privo di sensi - o forse semplicemente abituato a una scena simile. Questa è pressappoco la copertina di Glory, settimo album di Perfume Genius, che suona esattamente come la fotografia che lo rappresenta.

Dopo un lavoro a dir poco particolare come l’ultimo Ugly Season, da qualcuno nemmeno considerato come un album in quanto tale (ricordiamo che nacque per accompagnare una coreografia di danza contemporanea), Hadreas si riavvicina alle sonorità alt-folk che lo hanno da sempre contraddistinto, riassumendo, o meglio ancora, sintetizzando in undici tracce quindici anni di carriera.
Sintesi non solo musicale, ma anche tematica: il decadimento fisico e la morte fanno capolino nella maggior parte dei pezzi del disco, così come l’accettazione del presente e soprattutto del passato. Particolarmente evidente è il concetto della doppia dimensione interno/esterno, in qualche modo già intuibile dalla stessa copertina, espresso nell’incalzante traccia di apertura, It’s a Mirror:
“What do I get out of being established?
I still run and hide when a man's at the door
Polishing boots down a line in the basement
When I should be riding outside on my own”

Hadreas ha spiegato di essere spesso vittima di “loop di isolamento”, durante i quali i pensieri negativi hanno la meglio su di lui e sulla sua forza di reagire, così come sulla voglia di raggiungere una dimensione esterna che si presenta scintillante ai suoi stessi occhi:
“It's a diamond, my whole life is
Open just outside the door”
Il pezzo è un esempio di uno dei punti di forza più importanti di Glory, ovvero l’uso massiccio e sapiente della band di Perfume Genius, già con lui in studio e durante i live, dal punto di vista degli arrangiamenti: il tastierista e compagno Alan Wyffels, i chitarristi Meg Duffy e Greg Uhlmann, i batteristi Tim Carr e Jim Keltner e il bassista Pat Kelly sostengono la voce e le parole di Hadreas con forza e sentimento, e ascoltando il pezzo possiamo immaginarli mentre lo tengono in alto, in un quieto trionfo condiviso.

Questa sensazione è resa ancora più “alta”, proprio nel senso spirituale del termine, nella successiva No Front Teeth: qui la menzione d’onore è per la cantautrice neozelandese Aldous Harding, che con delicatezza e trasporto eleva il brano ad un sorta di preghiera laica. È qui che incontriamo per la prima volta, in modo del tutto esplicito, il tema dell’accettazione di sé e del proprio passato, in un processo di catarsi che coniuga parole e musica, mostrando sprazzi di un moderno Neil Young, prima acustico, poi elettrificato nel crescendo del pezzo. Ancora una volta è la band a dirigere, senza risultare mai sopra le righe ma senza dare la spiacevole impressione di avere il freno a mano tirato.
Le successive Clean Heart e Me & Angel, dedicata al compagno, invece decidono di abbassare i giri, ma senza perderne in intensità: la prima si muove su un pattern di colpi riverberati e delicati, aprendosi a una batteria precisa e acrobatica e a sprazzi di luce sotto forma di cori e acuti di chitarra; la seconda è una ballad piano, voce e poco più, in cui la felicità del partner è l’unica cosa importante, da godersi appieno mentre tutto il resto perde importanza. Siamo quasi a metà del disco, e le luci cominciano ad abbassarsi con la sommessa Left For Tomorrow, la cui ritmica irregolare e le timide pulsazioni elettroniche riflettono instabilità, mentre si riflette sul concetto di perdita.

Full On è la quota cinematografica del disco, sognante e sognata: “I saw every quarterback crying / Folded on my lap / And counting out the damage done” ribalta gli stereotipi, concedendo una benedizione queer che è sinonimo di liberazione. La chitarra pizzicata dolcemente, flauti che vanno e vengono trasformano un campo da football nell’ambientazione fiabesca di Harding, in cui mostrarsi al mondo è pura catarsi, naturalezza senza secondi fini.
Da qui in poi, Glory abbassa definitivamente le luci. La penombra del pezzo precedente ha lasciato spazio a un buio allo stesso tempo rassicurante e vagamente claustrofobico, in cui la strumentazione, seppur ancora a maggioranza di strumenti acustici, comincia a perdere la propria “naturalezza”, e cominciano ad emergere pad e accordi di sintetizzatore che contribuiscono all’atmosfera violacea della notte. Appartengono a questo mood la misteriosa Capezio e l’elegiaca Dion, la perversa In a Row e la doppietta finale Hanging Out e la title track Glory, ancora riflessioni sulla perdita e sul decadimento, fino a riconoscersi come “ospite di un corpo” da dover lasciare andare. Un blocco unico di pezzi, questo, che scava più in profondità di quanto fatto nei brani precedenti, mettendo in bella mostra ansie e comportamenti tossici da cui liberarsi, tenerezza e closure, passatemi l’inglesismo. Forse perde qualcosa a livello di intensità sonora, ma sotto questo aspetto è In a Row a tenere in piedi la baracca, grazie ad un crescendo di piano e voce che redimono l’ermetico simbolismo del testo.
Si potrebbe dire che Glory non toglie né aggiunge nulla alla discografia di Perfume Genius, ma sarebbe un giudizio superficiale: questo nuovo album non solo riconferma Hadreas come uno dei più virtuosi esempi di alt/avant folk nella scena mainstream, capace di mettersi a nudo e riflettere di paure e debolezze senza filtri; ma più semplicemente dimostra che dovremo ancora aspettare per il primo brutto album di Perfume Genius, e scusate se è poco.
