Mothers Swim Deep 18 settembre 2015
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2013. 19 ottobre 2013. 
NME intitolava: YOUNG BRITANNIA. Davanti a noi si spalancava una maxi copertina pieghevole su cui campeggiavano, tra gli altri, Jake Bugg, Palma Violets, Wolf Alice e in alto, in piccolo: Swim Deep. Where The Heaven Are We era già uscito due mesi prima e un solo colpo d’occhio alla cover ci sarebbe bastato ad etichettare l’album come il classico disco indie: su uno sfondo bianco troviamo il quartetto di Birmingham avvolto da magliette e pantaloni acquistati nel vintage shop vicino, taglio all’orecchio e candide margherite alla mano. Il tutto è incorniciato dal loro nome e dalle due caratteristiche ondine, entrambe immerse nelle nuvole, che un paio di mesi dopo ritroveremo cucite sui giubbotti denim di qualche ragazza su Tumblr.

2015. 2 ottobre 2015.
Esce con una settimana di ritardo Mothers. Ma, un momento, perché sono in cinque? Cos è questa miscela di colori in technicolor? Il nome della prima traccia è esplicativo: One Great Song And I Could Change The World. Basta una sola canzone per farci cogliere il radicale cambiamento di stile dei Swim Deep: da alternative band, ad una band che autodefinisce il proprio genere “psychedelic sex music”. Il vocalizzo iniziale, accompagnato poi da una tastiera, ci trascinano lentamente verso delle atmosfere eteree e oniriche che si spalancano in To My Brother, brano in cui le influenze degli anni '80 e '90 emergono palesemente. Green Conduit si apre con le dolci note della chitarra di Austin Williams a cui si lega la sua voce fievole ed acuta che però, verso il primo ritornello, si fa più forte grazie anche alla presenza delle percussioni di diversi tipi. Con sole 3 canzoni, il gruppo riesce a teletrasportarci attraverso tre decenni, facendoci ondeggiare tra gli anni ’60 e i ’70 con questo terzo pezzo.

Thanks: DIY Magazine

Mothers non ci lascia un solo secondo in più per immergerci completamente nell’atmosfera sixties, infatti con Heavenly Moment ci troviamo davanti all’ennesima dimensione: quella della musica new age e ambient di cui Brian Eno è una delle pietre miliari e che si trova anche qui ad essere una delle influenze maggiori. Nel mezzo dell’album troviamo una delle tracce più immediate: Namaste, il cui video merita almeno una visualizzazione solo per il fatto di avere tra i protagonisti Fred Macpherson. Si prosegue poi con Is There Anybody Out There, singolo che inizialmente fa presagire l’uso di una strumentazione spaziale, ma finisce per incepparsi nel ritornello, risultando un po’ troppo ripetitivo. L’ascoltatore però non rimarrà deluso da Forever Spacemen e il suo trascinante ritmo che appena dopo il primo minuto si dissolve tra le galassie per tornare in un secondo momento a farci rimettere i piedi per terra nella psichedelica dancefloor di Grand Affection, in cui il distorsore la fa da padrone. Anche la voce viene distorta in Imagination, 5 minuti e 14 secondi di simil-trip che però non riesce mai a coinvolgerci totalmente nel vortice dell’immaginazione che i Swim Deep tentano di creare con questo brano. I toni si fanno più tranquilli durante Laniakea, in cui si torna ad imbracciare una chitarra pulita e un basso limpido e il frontman riprende pieno possesso della sua voce. I suoni pacati non sono la caratteristica di questo album, i cinque giovani ci lasciano con una decina di minuti chiamati Fueiho Boogie, nel quale sintetizzano il drastico cambio di rotta avuto con il loro secondo lavoro e la scoperta di strumenti fuori dal comune (oltre ai classici sintetizzatori, vengono utilizzati il Thunder Sheet e un sitar elettrico).

Dopo essere tornata dall’Iperuranio e aver attraversato diverse epoche musicali intervallate da delle soste in mezzo ai buchi neri, devo ammettere che questo album proviene da un’altra dimensione, quella in cui in una canzone ne vengono impacchettate 100 differenti; ma che dico? 200! E non avendo il potere del Guardian o dell’NME di dare 4 stelle su 5 agli Swim Deep, posso solo citarli, dicendo: it’s fucking great!