Inutile girarci troppo intorno. Quando si mobilita il suo nome, ci si aspetta sempre grandi cose e questo rende il nuovo album di St. Vincent, All Born Screaming, uno dei più attesi di questa prima parte del 2024.
La cantautrice e polistrumentista americana torna a 3 anni di distanza dall'ultimo disco con il suo settimo album in studio in una carriera ormai ventennale che l'ha vista raggiungere le vette più alte del successo e, compito sempre più arduo in un'industria musicale votata ai profitti facili e a basso rischio, mantenerle portandosi a casa 3 Grammy e collaborazioni con uno spettro incredibile di artisti.

Prodotto interamente dalla stessa Annie Erin Clark, il nuovo progetto - di questo si parla, più che di semplice disco - può essere paragonato facilmente alla sceneggiatura di un film per via dei diversi rimandi al cinema. Un viaggio introspettivo che ha messo in luce una versione schietta e senza filtri di St. Vincent, libera anche dall'aiuto in produzione di Jack Antonoff (con cui aveva lavorato in occasione dei due precedenti dischi). A fare la differenza rispetto alla ormai consolidata genialità ci sono le innumerevoli collaborazioni più o meno riconoscibili nei vari brani, frutto dei tanti progetti in cui St. Vincent è ormai coinvolta. Oltre alla recente ammissione di Nyle Rodgers di essere al lavoro su nuovo materiale proprio con Annie Clark, ne sono una prova anche i proficui intrecci con Taylor Swift e Olivia Rodrigo.
In questo disco hanno messo mano - e strumenti - anche personaggi del calibro di Dave Grohl (vabbè, non servono presentazioni), Justin Meldal-Johnsen (noto per aver suonato e collaborato con Beck, Nine Inch Nails, M83 e Air, tra i tanti), Rachel Eckroth, Josh Freese, Cian Riordan, Mark Guiliana, David Ralicke, Cate Le Bon e Stella Mozgawa. Insomma, una sorta di selezione All Star.
L'opener Hell Is Near è una gran scelta per rompere il ghiaccio e creare il giusto clima per l'ascoltatore: il brano è il risultato di una scampagnata in un mondo in cui l'alternative e il big beat fanno da sottofondo musicale. Si sentono richiami di Massive Attack e si ritrovano molte componenti dei Kasabian di West Ryder Pauper Lunatic Asylum.
D'altro canto la successiva Reckless è un grido viscerale che tanto assomiglia alle composizioni più vivide di Florence Welch. Un climax ascendente che inizia dai sussurri di Clark accompagnati dal pianoforte e a cui si aggiungono progressivamente cori, suoni elettronici oltre ad un notevole carico di tensione e rabbia nella voce della cantante. Siete fan di 007 e delle sue iconiche colonne sonore? Ecco, questa sembra fatta apposta per il prossimo episodio della saga.
Poi la coppia di brani che rappresenta il cuore pulsante dell'intero disco. Broken Man, primo singolo estratto dal disco, fa della ritmica il suo pezzo forte e manco a dirlo alle percussioni troviamo Dave Grohl oltre a Cian Riordan e Mark Guiliana (sì, ben tre percussionisti). Prima un'introduzione in cui a dominare sono proprio le percussioni, poi sopraggiunte da un beat elettronico che accompagna la voce per gran parte del pezzo. "Who the hell do you think I am? Hey, Hey / Like you've seen a broken man" il mantra del brano. Il secondo singolo estratto dal disco è poi Flea, in cui secondo una formula già rodata dai Cure, Annie sfrutta il parallelo con una pulce (flea, per l'appunto) per narrare la sua storia e far arrivare dritto in testa all'ascoltatore il suo messaggio: "You will be mine for eternity".

Il terzo singolo estratto in ordine cronologico dal disco, Big Time Nothing, è l' ennesimo saggio di polimorfismo di St. Vincent. La personalità che, tra le tante, riesce ad emergere in questo brano è sicuramente quella che più simpatizza per un big beat di taglio più funk, scomodando sicuramente mostri sacri come David Bowie e David Byrne. Testo breve e conciso e tutta l'attenzione si sposta inevitabilmente sulla parte strumentale: un bell'intermezzo energico prima di avventurarci in una nuova sezione colta del disco.
Se Reckless vi dava l'impressione di essere stata scritta appositamente per una pellicola cinematografica, Violent Times è per ammissione della stessa St. Vincent perfettamente a tema James Bond. Le atmosfere suadenti generate dalla voce delicata di Clark e dalle taglienti chitarre distorte del ritornello richiamano senza dubbio le stesse create dal duo Turner-Kane nei dischi dei Puppets (fun fact: sotto il video ufficiale di My Mistakes Were Made For You i fan chiedono da tempo a gran voce di fare una raccolta firme per proporli come autori di una colonna sonora della più celebre saga spy del cinema). Come anticipato, la stessa Annie Clark ha effettivamente riconosciuto come il brano suoni perfettamente calzante per la prossima soundtrack.
The Power's Out, d'altro canto, si serve di tutti gli elementi fondanti del dream pop più attuale (leggasi Beach House e una punta di Tame Impala) e di un beat che è più di una semplice citazione a Five Years di Bowie.

La chiusura del disco si presta alla sperimentazione che più spinta di così sarebbe fuori portata persino per la St. Vincent che siamo stati abituati a conoscere. Se Sweetest Fruit è un tentativo di musica elettronica pop come di recente se ne sono sentiti diversi (tra tutti The S.L.P. e Kasabian o i Vaccines di Back In Love City), So Many Planets è a tutti gli effetti un saggio di reggae, giocoso e con un giro di basso ipnotico.
Il sigillo definitivo è l'unico vero featuring presente nel disco: All Born Screaming è infatti scritta a quattro mani con Cate Le Bon (se vo lo state chiedendo, sì il suo nome d'arte è un tributo a Simon Le Bon dei Duran Duran). Della poliedrica artista gallese se ne riconosce l'approccio molto funky e delicato al brano, salvo poi tornare a dare campo libero alla frenesia creativa di St. Vincent che, quasi a indicare la sua incapacità di contenere l'istinto, si avventura in un finale di brano tutto elettronico.

Riassumendo, il nuovo disco di St. Vincent è un grande collage di quanto raccolto in questi anni di carriera e un invito più o meno velato a lasciare andare le briglie e far uscire tutto ciò che si prova. I suoni e le parole sembrano proprio portarci in questa direzione: percussioni, synth e le grida di Annie Clark esigono e necessitano libertà di espressione. E questo è proprio ciò che emerge da un disco che richiederà sicuramente più di un ascolto per apprezzare a dovere la ricchezza di tutti gli elementi che lo compongono.