C’è una bandiera degli Stati Uniti che sventola fiera sopra un cielo azzurro terso. E' il 3 di luglio quando Sufjan Stevens, reduce da cinque anni di collaborazioni artistiche ed una nomination agli Oscar, pubblica su YouTube il video del primo singolo estratto dal suo nuovo lavoro, The Ascension, uscito il 25 settembre in digitale per Asthmatic Kitty. Il brano si intitola America e certo non è un caso che sia uscito proprio alla vigilia dell’Independence Day statunitense, lo stesso Fourth of July che Stevens aveva raccontato, in chiave riflessiva ed intimista, nel suo ultimo album solista Carrie & Lowell (2015).

In fondo, non è un caso nemmeno che proprio una canzone come America, con i suoi dodici minuti e mezzo di durata, sia stata scelta come biglietto da visita del suo ritorno in veste di autore, produttore, musicista ed interprete. Spulciando tra i commenti sotto al video, qualcuno ironizza sul fatto che l’artista avrebbe abbandonato l’agognato progetto di scrivere un album per ciascuno stato degli USA e ne avrebbe invece prodotto uno solo dedicato al Paese intero. Per chi segue Sufjan Stevens da qualche anno, non si tratta certo di una storia nuova: da quando nei primi anni duemila il cantautore ha pubblicato Michigan (2003) e Illinois (2005), il Fifty States Project ha catalizzato l’interesse della stampa internazionale e dei fan, che già sognavano di vedere musicati i ritratti di New York o, chissà, della California. Purtroppo, però, in quel momento si trattò solo di una grande trovata pubblicitaria che Sufjan sembrò voler accantonare per sempre (chiedendo perfino ai giornalisti di evitare le domande che riguardassero in qualsiasi modo quel progetto).
Mettiamoci dunque nei panni di Sufjan Stevens per un attimo: è il 2020, siamo nel bel mezzo di una pandemia e ad un passo dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, potremmo svegliarci l’indomani e trovare un mondo che non riconosciamo più. Peggio ancora, nella sua ottica, sarebbe accorgersi che lo spettro di Trump guida ancora le sorti del Paese e che un anno di rivolte e proteste non ha portato ad alcun risultato. «L’elezione di Donald Duck ha scosso qualcosa in me che mi ha fatto credere di avere il diritto di essere cinico ed anempatico» ha raccontato al The Atlantic, «ho trattenuto tanto risentimento nei confronti della cultura pop e americana e quando è accaduto tutto questo ho realizzato di dover dire qualcosa». America, in particolar modo, è una delle tante cose che Sufjan ha tenuto rinchiuse in un cassetto per molto tempo prima di sentirsi pronto a condividerle con il mondo; il brano era infatti stato escluso dalla tracklist di Carrie & Lowell perchè non in linea con la cornice autobiografica nella quale l’album si collocava e lì era rimasto, in attesa di trovare una collocazione più appropriata. Dal 2015 ad oggi, però, il mondo è decisamente cambiato e con esso anche Sufjan, che alla soglia dei cinquant’anni ammette: «Per la prima volta, in The Ascension, sono onesto rispetto a quello che provo nei confronti del mondo».

Così The Ascension, con le sue 15 tracce per una durata totale di poco superiore all’ora, è un’eccentrica riflessione paternalistica su una realtà che Stevens guarda con distaccata superiorità. L’album appare subito molto più vicino alle sonorità elettroniche di The Age of Adz che al folk acustico, spoglio e pulito, di Carrie & Lowell, del quale però preserva delicatezza ed armonia. Con il primo album condivide anche la lunghezza della traccia conclusiva, che in quel caso era Impossible Soul e che ora è America. Brani come Run Away With Me, che è un diretto rimando alla traccia omonima di Carly Rae Jepsen, Tell Me You Love Me o Landslide, che invece richiama una canzone dei Fleetwood Mac, accostano la dolcezza della musica alla desolazione che permea le parole dell’artista, «my love I’ve lost my faith in anything/ tell me you love me anyway». Accanto alla rassegnazione, però, Sufjan lascia spazio al risentimento, forse nei confronti di una generazione che, soprattutto in questo momento storico, non ha saputo dare abbastanza per cambiare le sorti del mondo; «I thought I could change the world around me/ I thought I could change the world for best [...] I did it all with excitation/ you did it all with hopelessness», canta nella title track.
Non si risparmia neppure quando, nel confezionare la promozione del secondo singolo estratto dall’album, Video Game, sceglie Jalaiah Harmon come protagonista del video ufficiale del brano; forse il nome non vi suonerà familiare, ma se siete assidui frequentatori di TikTok ed Instagram sicuramente riconoscerete il suo volto o, meglio ancora, la Renegade dance che la 14enne americana ha inventato prima che diventasse un fenomeno virale. Perchè, quindi, Sufjan Stevens può aver scelto una giovane star dei social per rappresentare una fervida critica alla società? In realtà, ha spiegato l’artista, la ragazzina non ha immediatamente ottenuto riconoscimento quando la sua coreografia ha raggiunto la popolarità sulle piattaforme social; al suo posto, la ben più nota Charli D’Amelio ne era stata considerata l’inventrice. Video Game è essenzialmente un brano che racconta come il valore di una persona non possa mai essere definito dal giudizio di chi le sta attorno, ancor meno se a veicolare l’opinione è il numero di like e followers che le nostre identità digitali ricevono. Chi meglio di Jalaiah, dunque, avrebbe potuto rappresentare quell’idea?
A questo punto credo di dover fare una precisazione: il Sufjan Stevens che trapela, neanche troppo velatamente, da The Ascension è quel personaggio saccente e fastidioso che capita a tutti di incontrare almeno una volta nella vita. Lo si detesta, subito, al primo ascolto. Dichiaratamente stufo di imbracciare una chitarra e suonare musica folk, con quel modo di fare «bossy and bitchy”» che gli concede di pescare a piene mani dalla cultura pop che, al contrario, intende ripudiare (una traccia si intitola Death Star, e, sì, è proprio un riferimento a Star Wars), sembra credere che l’unica speranza di ritrovare purezza, semplicità e salvezza (temi che affronta in Sugar) sia chiedere a Dio di non destinargli lo stesso destino infausto che è toccato invece all’America («Don’t do to me what you did to America»). Per farla breve, The Ascension non vuole essere nulla di più di questo, un’ascensione, o, per assecondare l’atteggiamento superbo di Sufjan, un innalzamento spirituale. Per raggiungerlo attinge ad un arsenale di sintetizzatori, che suona quasi esclusivamente lui, ed un paio di musicisti che fanno capolino nel corso dell’album a completare l’opera. Secco e pungente, smette di guardare dentro sè per scrutinare il mondo fuori e passare al vaglio del suo giudizio tutte le pessime abitudini della nostra società.

Se è vero però che è facile detestare un album come questo, che avrà sicuramente generato sgomento in chi ha amato le atmosfere folk, vicine ai mondi di Elliott Smith e Nick Drake, di album come Seven Swans e Carrie & Lowell, non si può negare la bellezza delle atmosfere eteree di America, che è poi la summa dell’intero album, Die Happy o Gilgamesh che, insieme alla title track, costituiscono alcuni dei punti più alti di The Ascension. Certo, è un apprezzamento che richiede di superare una forte resistenza a mettere da parte l’idea di Sufjan Stevens che ci siamo costruiti negli anni. In molti casi poi, è un apprezzamento prima mentale e poi, semmai, emotivo, specie se non si è avvezzi alle sonorità elettroniche che caratterizzano l’album; in fin dei conti, se si vuole sposare gli intenti didattici di Sufjan, The Ascension lo si ama per ciò che comunica, non direttamente per come lo fa.
Forse The Ascension riesce, pur con qualche riserva, dove The Age of Adz tentennava: ha uno scopo chiaro e delineato, spronare a mettere in dubbio la realtà che ci circonda. «Exterminate all bullshit, be part of the solution or get of the way; keep it real, keep it true, keep it simple, keep it moving».