Forse non era un caso se il titolo di una loro hit aveva un’onomatopea fragorosa. Quando gli Hives salgono sul palco, sembra che scoppi realmente una bomba. Il pubblico viene quasi subito steso dai suoni potenti, non prima di pogare e scoppiare in una risata, nel momento in cui lo scatenato e sudatissimo cantante Pelle Almqvist esce con la solita battuta: «Siamo la miglior band in circolazione».
Forse nemmeno quella frase era un caso, perché gli Hives sanno di fare i conti con il punk rock, un genere in stadio terminale ma non per loro, che la combinano grossa anche in studio. I cinque non si azzardano a cambiare marcia e rallentare gli strumenti, The Hives Forever Forever The Hives è il nuovo album fatto di nuovi suoni veloci. Le note si rincorrono, si schiaffeggiano, c’è una vera e propria lotta nell’aria.

I riff, immancabili nel repertorio degli Hives, si mescolano a un rock and roll sporchissimo (Roll Out The Red Carpet). I ritornelli rimangono conficcati in testa, fanno dare di matto come le hit sanno fare (Bad Call), gli strumenti si sfogano in un caos (O.C.D.O.D.), si direbbe che le dita dei chitarristi, nell’eseguire gli accordi, stiano facendo esercizi di ginnastica (Paint a Picture). Mentre il punk rock infiamma le tracce, Pelle Almqvist risponde ai giri di chitarra come un giullare urlante (Hooray Hooray Hooray). Quello della band svedese non è un punk rock qualsiasi, è tipicamente americano (They Can’t Hear The Music). L’album non segue un’unica scia musicale, ha i suoi alti e bassi, porta l’ascoltatore a percepire un’atmosfera che si affievolisce (Legalize Living) e passa a un momento di transizione (interlude) che cambia la rotta. Da qui, si sentono chitarre stridule, l’alternative è nell’aria (Path Of Most Resistance) e c’è persino un ritmo da surf (Born A Rebel). Qualche distorsione è condensata sul finire, in particolare nella traccia che dà il titolo al disco (The Hives Forever Forever The Hives).

In questo album, gli Hives entrano in scena sulle note della Sinfonia n.5 di Ludwig van Beethoven (introduction): un effetto conforme alla narrazione del disco, un inno di resilienza nel panorama musicale del quintetto svedese, attivo sulla scena punk da oltre vent’anni. Potrebbe anche essere un simpatico richiamo al disco precedente, The Death of Randy Fitzsimmons, uscito nel 2023 dopo undici anni da Lex Hives. Se il re – Randy Fitzsimmons, fittizio produttore e autore dei testi – è morto, allora viva i nuovi re, gli Hives. È come se la band volesse riscrivere sé stessa attraverso ritmi vecchi senza cadere nel nostalgico. Il singolo che ha introdotto l’album, Enough is Enough, ricorda gli indimenticabili successi della band, mentre il singolo che chiude il disco, è un riassunto delle tracce precedenti.

«Il punk non è morto», resiste con gli Hives. Slogan a parte, il momento attuale è alquanto deludente. I protagonisti d’oltremare dei primi anni Duemila, chi a suo tempo fece più successo del quintetto svedese, appaiono come fantasmi di un passato difficilmente replicabile. Ed è in questo panorama da tracciato piatto che la band svedese sorprende, perché se ad altri il genere riesce male ed è quasi prosciugato della sua linfa vitale ribelle e idealistica, loro lo reinventano con l’ingrediente che gli viene meglio fare, l’ironia. È così che nascono le canzoni degli Hives, che in questo disco sono critiche severe verso la società e una valvola di sfogo alla ricerca di una libertà senza patina. Che il nuovo regno abbia inizio.
