Sleep Well Beast The National 8 settembre 2017
9.2

Quante volte quando ci hanno chiesto cosa avevamo non siamo riusciti a descrivere il groviglio che avevamo dentro: un grande ammasso di lacrime, emozioni, pensieri, paure, ma non una sola parola che sintetizzasse il tutto. Sconforto? Tristezza? Malinconia? Alcune volte ci sembrano parole troppo riduttive, troppo semplici, quasi troppo banali. Per fortuna in questi momenti ci viene in soccorso la musica e una band in particolare riesce sempre a comporre le colonne sonore per questi momenti: i National. Il quintetto di Cinccinnati, Ohio, ha un’innata maestria nel mettere per iscritto in poche poetiche strofe quella tristezza che alle volte ci si staglia enorme di fronte agli occhi, accompagnandola con ritmi semplici, oscuri che sono la perfetta trasposizione su pentagramma proprio di quei testi.

L'ultima fatica dei National, Trouble Will Find Me (4AD), risale al lontano 2013 quando raccolse decine di stelline d’approvazione da critica e pubblico, tanto che una volta, parlando con Fort a riguardo, mi disse: “Ogni volta che qualcuno ne parla sembra che si stia facendo una sega”. Difficile dargli torto e difficile competere con un album che, tra le altre, contiene meraviglie come I Need My Girl, Don’t Swallow the Cap e Sea of Love. Dopo 4 anni passati a correre da una collaborazione all’altra (Matt Berninger si è dato al side project EL VY, mentre i fratelli Dessner hanno lavorato, tra gli altri, con Surfjan Stevens), i vari membri della band hanno sentito il bisogno di ricongiungersi e di chiudersi nello studio-garage-chiesa del chitarrista Aaron Dessner, e tra rane e aironi hanno dato vita ad uno degli album più attesi di quest’anno: Sleep Well Beast (4AD).

The National: Bryce Dessner, Scott Devendorf, Aaron Dessner,Matt Berninger, Bryan Devendorf

L’inizio è delicatissimo: un piano, delle percussioni appena accennata per delimitare il tempo, e la voce di Matt Berninger a ripetere Nobody Else Will Be There, titolo della prima traccia. Le 5 parole si ripetono incessanti dando vita ad una ninna nanna dolce in cui la voce di Berninger si fa calma, profonda e accompagna l’ascoltatore verso un percorso che sarà costellato di luci e ombre, novità sonore e vecchi temi cari alla band. Alla prima canzone rimarrete senza fiato e penserete che se tutto l’album è a questo livello, probabilmente siete davanti al disco dell’anno. The Day I Die ne è la riprova. La ripetizione del ritornello, accentuata dall’allitterazione, è solo uno dei particolari che può benissimo rendere questo brano uno dei futuri classici del gruppo. Come quasi tutte le tracce di quest’album, la canzone inizia con una breve bozza musicale, un ritmo totalmente diverso da quello principale, creato ad hoc dai gemelli Dessner su cui poi si inseriscono i fratelli Devendorf (basso e batteria) e che spalanca le porte a delle percussioni che scandiscono incessantemente ogni secondo del pezzo. Fin dall’inizio si sente nell’aria un rivolo di novità, i fan dei National si accorgeranno subito che c’è qualcosa di nuovo: la chitarra (che ricorda quella degli Editors di An End Has A Start), i piccoli assoli, i tipici elementi del buon vecchio rock.

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Le novità non finiscono qui. La terza traccia, Walk It Back, è la prima canzone a sancire il cambiamento dei National, l’ennesimo superamento dei loro limiti, forse la loro definitiva maturazione. La prima cosa che mi è venuta in mente ascoltandola è stato un completo nero, una camicia bianca aperta fino al petto e i suoi capelli neri tirati indietro con la brillantina. Lui, la voce del rock indipendente, l’uomo delle tenebre: Nick Cave. Le parole (I’m always thinking about useless things/I’m always checking out), quasi recitate come se fosse un poema dai colori tetri, ogni lettera come una tonalità di grigio differente viene incorniciata da dei sintetizzatori, che quasi lasciano gli altri strumenti nello sfondo. La parte centrale (simile a quella di Iron Sky di Paolo Nutini) è un discorso che sembra preso da una delle rassegne stampa proiettate su un piccolo e vecchio televisore, con le notizie principali che scorrono in sovraimpressione, che poi a sua volta si dissolve lentamente nell’outro, altro elemento che balza subito all’orecchio. Il fatto di ritrovarsi a lavorare in piena autonomia, con un personalissimo studio, ha permesso ai National di lasciarsi andare, di esplorare territori mai varcati prima, di sperimentare con suoni completamente nuovi, come quelli proveniente dall'universo dell'elettronica, grazia al quale il Guardian li ha ribattezzati i Radiohead d’America.

La prima volta non si scorda mai. Quella dei National è stata lo scorso agosto, con la loro prima number one nella classifica Billboard delle migliori canzoni alternative. Per Matt Berninger è stato un po’ come essere eletto re del ballo 20 anni dopo la fine dell’high school. The System Only Dreams in Total Darkness è riuscita a raggiungere una delle vette più invidiate delle classifiche americane con la sua voce angelica e femminile d’apertura, i minuscoli assoli rock, il crescendo, e una sinfonia più cadenzata e movimentata, più rock. In questo caso non si fanno notare solo le ritmiche, ma anche i testi, la specialità della band, capace di catalizzare in mezzo a righe criptiche, quella frase che, a te anima sensibile, arriva veloce come un proiettile. Basti arrivare ad Also no other faith is light enough for this place/We said we’d only die of lonely secrets, versi che dipingono perfettamente il buio color petrolio che alle volte ci avvolge prima della luce, quel senso di ibernazione dato dai sentimenti o dai fatti, che in alcuni casi ci avviluppa e ci incupisce. Infatti il pezzo per una volta lascia da parte il tema delle relazioni, per tracciare un ritratto astratto degli strani tempi che stiamo vivendo, parla di come il nostro mondo e la nostra identità possano cambiare da un giorno all’altro. Non vi sembra di rivedere qualcosa? Novembre 2016, elezioni americane, Trump. Dichiaratamente liberali e sostenitori di Hilary Clinton, i National con questa canzone descrivono i tempi incerti a cui assistiamo inermi.

Voltiamo pagina, stacchiamo per un attimo pedaliere e amplificatori, cambiamo ritmi. Ma tu, tu non cambi mai. Si ritorna alle note di piano, i ritmi da ballad lenti su cui è difficile non farsi cullare. Born to Beg è una dichiarazione d’amore, dolcissima, un amore costruito tramite immagini di un uomo che prova un’adorazione sconfinata per lei, tanto da voler rimanere sempre un passo indietro e ammettere di esser nato per pregare per lei. Siamo finalmente arrivati al fatidico momento delle lacrime, valli di lacrime. In un album che fino ad ora non ha dimostrato una singola imperfezione, si va in cerca della nota fuori dal coro, della stonatura. Insomma, sono umani pure loro. A parere mio arriva con Turtleneck, la canzone più debole del disco, più sporca, più rumorosa, più rabbiosa, una prova garage rock che rappresenta una reazione quasi fisica all’elezione di Trump (This must be the genius we’ve been waiting years for, oh no).

La seconda parte del disco inizia con una drum machine dai sapori afro, che con i suoi battiti alternati dà il via a Empire Line. Il pezzo prende il nome da un treno che ogni giorno collega New York ad Albany e ogni battito richiama il caratteristico rumore delle carrozze in corsa, che qui diventano metafora della distanza. Il tutto viene amplificato dalla ripetizione del verso Can’t you find the way? quasi a voler imprimere nella testa dell’ascoltatore il messaggio che Berninger e soci stanno con forza comunicando. I’ll Still Destroy You, è una delle canzoni musicalmente più particolari del disco, con il suo synth traballante, inizialmente così prepotente da occupare tutta la scena, coprendo quasi interamente il tanto amato baritono trascinato del cantante, ma che poco dopo il primo minuto sparisce senza che ce ne accorgiamo, lasciando spazio alla classica batteria e agli accordi velati di chitarra, che tra un arpeggio di chitarra e uno xilofono finiscono in una guerra perfettamente coordinata di strumenti. Guerra che raffigura perfettamente cosa succede nelle nostre piccole scatole craniche quando beviamo o fumiamo dell’erba: il più delle volte si crea un gomitolo indistricabile, un misto di allegria, nausea, mal di testa, inibizioni che se ne vanno, che senza volerlo cambiano il nostro stato d’essere e che alle volte utilizziamo per auto-medicarci dal punto di vista fisico o psicologico, insomma per guarire da qualcosa o semplicemente per non pensarci. Questo è uno dei temi più cari a Berninger, tanto da aver dichiarato in un’intervista che è uno degli ingredienti della sua vita, e qui viene messo nero su bianco (the molecules and the caplets).

Guilty Party è il continuum tematico della canzone precedente. Qual è il modo migliore per curarsi se non prevenire il problema? La classica melodia ripetitiva e malinconica, per la quale sono così famosi i National, fa dà sfondo ad un brano che racconta la dissoluzione del matrimonio tra il cantante e la moglie, Carin Bessner. Ma tutto ciò non è mai successo e non sta succedendo. Ogni parola è calibrata in modo tale da affrontare delicatamente una paura più che legittima, diventando quasi una confessione attraverso cui arginare un problema fittizio per il cantante, ma in molti casi tristemente vero e palpabile. Carin, Carin quanto ti deve volere bene Berninger per lasciarti scrivere le canzoni insieme a lui e per usare il tuo nome in uno dei titoli? Carin at the Liquor Store è per lei e non posso che invidiarla, perché la canzone è una dichiarazione d’amore (You cannot command your love), una correzione del Karen di Alligator, un’accortezza per ringraziarla per tutto ciò che fa, un lento eseguito al piano su cui poi si incastrano una batteria soffusa d’accompagnamento e un assolo di chitarra.

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Si pensa che avvicinandosi verso la fine dell’album, i National abbiano ormai sparato tutte le cartucce che avevano in canna. E invece no, riescono a stupire persino con la penultima Dark Side of the Gym. All’inizio sembra un pezzo più zuccherino, quasi dolciastro, una ballata d’amore dagli echi anni ’60, dal testo apparentemente troppo semplice (But I’m gonna keep you in love with me for a while), con tanto di voci angeliche che cantano sugli alberi per i due innamorati. Ma la sorpresa arriva nei pochi secondi del finale, quando si svela un coro potente di archi, a mettere in musica tutto l’impeto di quest’amore. Ah, l’amour. Un grande disco ha bisogno di un gran finale, e i National chiudono le danze con Sleep Well Beast, la traccia più lunga mai suonata dal gruppo che dà il nome all’intero album. Il brano è un miscuglio di sperimentazioni, suoni diversi che si intervallano, si prendono e si lasciano, in cui si intercettano oltre agli archi persino dei fiati e che terminano dissolvendosi nell’aria, come se pian piano ogni membro della band lasciasse il proprio strumento e accompagnasse l’ascoltatore, ringraziandolo e augurandogli una buonanotte, verso l’uscita della performance che è questo loro settimo lavoro. Ma la bestia di cui si parla, non è un concetto negativo. Molte canzoni dell’album sono state scritte come se fossero un dialogo tra padre e figlia, e in questo caso beast racchiude proprio il futuro. È come se il gigante buono stesse baciando sulla fronte la sua piccola prima che si addormenti, sapendo ciò che la aspetterà, ma rimanendo positivo perché sa che nella sua giovinezza sboccerà.

Se sei arrivato fino a qui, ti ringrazio di cuore e ti faccio i miei complimenti, perché fino ad ora ho scritto più di 1800 parole. Ma è letteralmente impossibile racchiudere quest’album in poche parole e la metà delle parole sarebbero troppo riduttive. Con Sleep Well Beast ho avuto l’ennesima riprova di perché i National sono i santi protettori di Pitchfork: ogni album è un passo avanti che fa crescere e maturare la band di canzone in canzone, e la maturità sta nel fatto che riescano a creare ogni volta un connubio perfetto tra ciò che sono stati (le tematiche dei testi e il pianoforte per esempio) e ciò che saranno (sintetizzatori vari, suoni ricercati alla Radiohead). La band di Cinccinnati non ha bisogno di osare, non ha bisogno di cambiare totalmente strada, non ha bisogno di gettarsi a capofitto nell’elettronica, e in ciò sta la forza dell’album, in ciò sta il dettaglio che rende, secondo me, quest’album così potente e in qualche modo speciale: i National sono riusciti ad elaborare la propria essenza con gli strumenti odierni, non hanno mai dimenticato le proprie radici sobrie e malinconiche, ma sono riusciti ad evolversi e a mutare, rimanendo sempre integri. E questo per me è il vero segreto che si cela dietro ogni beast.

Matt Berninger