viagr aboys Viagra Boys
7.5

Cosa significa essere punk nel 2025?
Ha ancora senso chiederselo?
O meglio, è mai stato, in primis, ontologicamente corretto porsi il problema?

Eppure, quell’ormai dimenticato sentimento di disprezzo dello status quo potrebbe trovare la sua raison d'être proprio nell’era della tecno-confusione a noi contemporanea, dove chiediamo a ChatGPT di declinarci per procura un sentimento, nel mentre il reale viene al vedo al banco della post-verità.

Conflitti geopolitici al normale ordine del giorno, il pong continuo di dazi tra le superpotenze, l’impotenza d’acquisto tra i mortali, il deepfake della cyber-sicurezza, la workout routine con la faccia nella bacinella di Saratoga gelida, la spiritualità e la salute mentale tramite newsletter settimanali di “gentile” reminder. Una congestione d’informazioni che trova sfogo ovunque e comunque, in maniera costante e capillare: così anche nella musica, così appunto pure in quel che rimane del punk.

E quali nobel per la (fame) chimica potranno mai dare il loro, non richiesto, punto di vista, sobbarcandosi l’ardore di contrapporre all’intelligenza artificiale una deficienza naturale? Direttamente dalla terra dei salmoni e delle Volvo, i Viagra Boys, con viagr aboys, il loro quarto e sgrammaticamente omonimo album.

Tung Tung Tung Sahur”, e la recensione potrebbe tranquillamente già finire qua.

Viagra Boys foto promo
Viagra Boys | Foto press

Tuttavia, se sto scrivendo queste quattro righe, è perché il gruppo svedese è riuscito a far qualcosa che va ben oltre il compitino post-punk di piagnisteo verso i luoghi comuni che ci circondano: i sei svedesi firmano ed elevano il disco da una mera critica sociale, tinta di un eterno umorismo pulp da bestioni, ad un’inaspettata introspezione che nasconde, a sorpresa, anche lati dannatamente umani (sul serio eh) e di supporto (a)morale. Perché sì, ha ancora senso chiedersi cosa significhi essere punk, ma vale maggiormente la pena chiedersi cosa significhi “essere”.

Viagr aboys nasce post-punk e muore western, diario di bordo, quasi romanzo di formazione, con il sole a picco in un duello da mezzogiorno di fuoco tra i vari io di natura fichtiana, sparsi negli undici brani del disco.

Questa base narrativa è infatti delineata da subito nella prima traccia, Man Made of Meat, dove a farla da padrona è la disillusione per la superficialità della cultura consumistica. Sebastian Murphy, voce del gruppo, dopo aver mezzo soffocato la digestione dell’aringa marinata nel secondo verso ed essersi scagliato contro l’utente medio di OnlyFans, realizza e ringrazia il nonsense della propria esistenza che gli ha concesso una vita da artista, malgrado il disgusto che ne derivi guardando il nulla cosmico accumulatosi intorno in anni di acquisti su Wish.

Il ritrovato senso di gratitudine per la propria condizione di cittadino del primo mondo lo accompagnerà anche in Uno II, terza traccia e nome stesso del levriero di Murphy: dietro quest’immedesimazione col proprio cane, il cantante, parlando col veterinario originario dell’est Europa si renderà conto di quanto i suoi “problemi” (quali finire il sondaggio Facebook “che zucchina sei?”) siano nulla a confronto di quanto stia effettivamente accadendo nel mondo su base quotidiana.

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A fronte di quest’epifania e malgrado il tutto fosse partito in una direzione strettamente post-punk dal punto di vista sonoro (vedi anche la seconda The Bog Body), il disco prenderà da qui in poi sbandate di carattere prog-navajo-sciamano-rock al punto da rendere le chitarre più dense e ovattate, così come i testi che rivolgeranno l’attenzione più al loro narratore che al contesto di sfondo.

Qui la grande intuizione nascosta in Viagr aboys: ok, chiaro il mondo allo sbando, ma “io”? Ok, chiaro avere le chitarre e il basso come fendenti in Dirty Boyz e Store Policy, ma in che spirale ci trascinano? Che forse perseverare in colazioni a base di sigarette faccia davvero male?

Dietro una vita al fotofinish, ecco lo spettro della caducità antropica ed ecco quindi i sette passaggi della Pyramid of Health per allontanare l’inevitabile: i Boys scoprono i centrifugati di carota e zenzero, ritmi più prog e scenari verdi che ricordano le valli scozzesi d’intermezzo del primo Trainspotting, pervasi da un senso di bucolica dannazione. Con quest’ultima traccia si apre dunque un secondo lato del disco più interessante ed un’evoluzione di quanto i Viagra Boys erano stati per i primi tre album.
I riff si re-inventano come in un pezzo dei Pixies in Medicine For Horses e si autodistruggono nella conclusiva River King, lasciando soli un piano e la voce sempre più malinconica di Murphy, ormai rassegnato al suo cinismo:

“Life is hard, and it's harder when you like it hard
Or at least when your subconscious seems to like it hard”

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Perché in fondo i Viagra Boys ormai non sono più solo un gruppo, ma un’allucinazione collettiva sopravvissuta ad un rituale high-tech dell’algoritmo di Instagram. Sono quella crosta sporca della nostra indole più pura che lancia disperata, in Best In Show pt. IV, grida d’aiuto; qualsiasi aiuto: finanziario, terapeutico e spirituale. Non importa che arrivi dai Navy Seals o dagli arcidiaconi del cloud, basta che arrivi.

È il punk per eccellenza: indefinibile, a tratti disgustoso, alle volte sensibile dietro spessi tratti di becero umorismo atti a mascherarne questa fragilità, ma comunque teso per raccontare una storia non detta.

Ne abbiamo veramente bisogno? Scontata la risposta del gruppo: You N33d Me. Una linea di basso, ballabile, probabilmente illegale, guida questo contagioso manifesto della band. Perché sì, avranno ansia a manetta per il futuro ma sono i Viagra Boys di sempre, quelli che interpretano contemporaneamente l'anima e la rovina della festa, per questa volta solo in una veste più raffinata, ripulita e sicura di sé.

Il frontman dei Viagra Boys in concerto allo Spring Attitude di Roma nel 2024
Il frontman dei Viagra Boys, Sebastian Murphy, in concerto allo Spring Attitude di Roma nel 2024 | Credits: Liliana Ricci