Where's My Utopia? Yard Act
8.4

I'm in love with an illusion

Essere innamorati di un’illusione è di per sé il primo passo verso la disillusione e la presa di coscienza della natura dell’amore stesso. Nel caso degli Yard Act è la musica la causa e il fine ultimo: una strada da percorrere, una carriera da costruire e un utopico futuro di hit. Il frontman James Smith si è però reso conto, durante il primo tour e dopo il grande riscontro del primo acclamato album The Overload (qui la nostra intervista poco dopo l'uscita), che nulla era cambiato, anzi. Fino al punto di chiedersi Where’s My Utopia?. Il successo e l’aver raggiunto lo status di musicista professionista con la propria band non ha stravolto in positivo la sua vita, né ha spazzato via i suoi problemi, ma ha aumentato scrupoli e dubbi, tutti riversati nel nuovo disco.

Yard Act Where's My Utopia
Yard Act | (C) Phoebe Fox

Per gli Yard Act Where’s My Utopia?, più che un secondo album, è un secondo “primo album”. La band di Leeds rilegge il post-punk in ottica disco: più pop, più danzereccio, come nell’opening An Illusion. La prima reazione è di stupore, la seconda di meraviglia: ma che hanno combinato gli Yard Act? Il basso unito alla tastiera e a un’elettronica da pista da ballo e poi arriva quel finale con l’ingresso della chitarra elettrica resa più drammatica dagli archi disco e dai cori. Il primo brano racchiude tutti gli stati d’animo che contraddistinguono l’album: spensieratezza, nostalgia e malinconia.

Lo sperimentalismo e la nuova vena elettronica erano stati anticipati dall’illustre esclusa The Trench Coat Museum. Nel disco non c’è una canzone di questo tipo, ma spesso i vecchi Yard Act si mescolano ai nuovi. We Make Hits, scritta in tour, si regge su un giro di basso ipnotico e irresistibile, formula vincente del disco di debutto, ma questa volta subentrano gli ottoni e un ritornello a metà strada tra l’elettronica Daft Punk e il rock colorato degli Shaka Ponk. Il leggero auto tune sfruttato nel finale è quasi una metafora del significato del pezzo che ripercorre la storia della nascita della band. Iniziata come un sogno musicale anti-capitalista, si è ritrovata nel pieno del vortice delle contraddizioni del successo e della firma con la major Island.

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Nei versi iniziali della seconda traccia viene citato uno degli album più celebri dei Fall: This Nation’s Saving Grace. Mark E. Smith aleggia per tutti i quarantatré minuti dell’album. Se da un lato lo stile musicale abbraccia nuovi generi, in apparenza più leggeri, lo storytelling diventa estremo e personale. Down the Stream, sfruttando una base anni funky anni ’90, inaugura uno dei concept figurativi di Where’s My Utopia, quello del fiume. Compare anche nella copertina fumettistica e, come nell’ambito filosofico, simboleggia il passaggio del tempo. Per James Smith è un’immagine ideale per raccontare il passaggio dall’infanzia all’età adulta, ovvero la fine delle illusioni e la scomparsa dell’utopia. Il frontman romanza le vicende di un suo amico d’infanzia, oltre che le proprie.

La nascita del primo figlio ha influenzato la scrittura di James Smith che non esita a proiettare se stesso nelle piccole scarpe del primogenito. Si rivede in lui e nei suoi sogni che cerca di proteggere e coltivare. E la cosa stupefacente sono i brividi e le emozioni che si provano ascoltando il brano più complesso e ambizioso dell’album: Blackpool Illuminations. Un lungo racconto d’infanzia di oltre sette minuti su una base che ha il sapore di una colonna sonora. Avant-jazz e archi fanno da sfondo al passato e al presente che si fondono.

Se finora il post-punk inglese ha puntato al rumore disturbante e alla costruzione di linee melodiche fragili e poco accomodanti, in questo 2024 sembra aver cambiato direzione. Un primo indizio l’hanno fornito gli IDLES che hanno accennato al mondo della disco con Dancer e la sorprendente collaborazione con gli LCD Soundystem. Gli Yard Act con Where's My Utopia? vi si sono immersi completamente, merito anche di Remi Kabaka, storico batterista di Gorillaz e Africa Express, che ha co-prodotto l’album. L’anima più danzante del disco contrasta con i testi e le contraddizioni etiche che infestano i pensieri di James Smith. The Undertow, e soprattutto il singolo Dream Job, sono gli esempi principali di questa tendenza.

Il primo è un brano dedicato dal frontman a sua moglie: il fiume della giovinezza sfocia nel mare dell’età adulta accompagnato da un inedito canto melodico e dagli stessi archi disco. Gli stessi che aprono la già citata Dancer di Talbot e soci. Il senso di Dream Job, canzone ancora più pop e cantabile, invece è facile intuirlo dal titolo. Il lavoro dei sogni è diventato una routine, un circolo vizioso dominato dalle stesse logiche capitalistiche che la band attaccava con ironia in The Overload.

Questo nuovo equilibrio, tra etica personale e lavoro, si mescola alla nostalgia in un’altra delle perle del disco: Fizzy Fish. L’acqua questa volta è quella di un lago, sinonimo dello stagnante stato d’animo che spinge a mitizzare e rimpiangere il passato. James Smith intraprende un dialogo immaginario con un se stesso di un’altra dimensione temporale e, nel tempo di un ritornello che strizza l’occhio a Run DMC e Beastie Boys, trova il modo di scendere a patti con il presente.

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Si è parlato di dissidio e burnout, due temi tipici dei secondi album. Basti pensare a A Hero’s Death dei Fontaines D.C. o a Drunk Tank Pink degli shame. Petroleum parla proprio di questo, partendo da un fatto realmente accaduto alla band durante il tour. James Smith, completamente scarico e svogliato, deve confrontarsi col pubblico nell’ennesimo concerto nell’arco di 18 mesi. Il brano, tra scratch, tocchi di auto tune, basso e chitarra elettrica distorta, si interroga su quale sia la versione che il pubblico desidera maggiormente: quella perfetta e falsa, o quella più onesta e fragile.

Ecco allora la radiofonica When The Laughter Stops con il prezioso featuring di Katy J Pearson che racconta il meccanismo della negazione. Il mondo della musica non ha tempo e bisogno del dolore e dei rimorsi. Per cui si balla al ritmo di synth psichedelici inquietanti, prima che esploda un ritornello al quale è difficile resistere. Si balla sulla paranoia e sui sensi di colpa, quelli affrontati in Grifter’s Grief, la canzone più crossover dell’album. È qualcosa che si avvicina molto a una sindrome dell’impostore quella che attanaglia James Smith, ma declinata in chiave etico politica. Esiste ancora per gli Yard Act l'utopia di poter conciliare idee e successo? Capitalismo e cambiamento climatico che ritroviamo anche nell’ultimo respiro di speranza che chiude il disco.

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Sembra proprio che la collaborazione con Elton John in 100% Endurance abbia lasciato un segno profondo nello stile della band. Non potrebbe essere altrimenti d’altronde, quando si collabora con un artista di quel calibro. Il piano di A Vineyard For the North detta il mood e prepara il terreno a un ritornello spensierato e sfacciatamente pop che fa il paio con un testo che, per l’ennesima volta, mette in mostra tutta l’abilità ironica e satirica di Smith.

Gli Yard Act rompono ancora gli già poco stabili argini del post-punk, Where’s My Utopia? è un album complicato e accessibile. Come vuole la tradizione, per le band provenienti da Leeds, su tutte i Gang of Four, non esistono limiti. Si può essere accademici, intellettuali sarcastici e allo stesso tempo scendere sulla pista da ballo imbracciando una chitarra elettrica. E ovviamente indossando un trench.

Yard Act Where's My utopia
Yard Act | (C) Jamie Macmillian