22 marzo 2018

Storia di una giovane band britannica in ascesa: gli Shame

Una stamberga dai colori britannici, un interno angusto pitturato dalle più strane forme, mobilia rustica: questo è lo spettacolo che si presentava un tempo al Windmill, pub di Brixton che ha ospitato a lungo una delle band più discusse nel primo trimestre del 2018, gli Shame. Una rapida occhiata alla copertina di Songs Of Praise (Dead Oceans, 2018) è sufficiente per contestualizzarli in un ambiente provocatorio, ciò nonostante nessun gesto sul palco appare meno crudo dell’idea di cucinare arrosto tre fratellini pasciuti e grugnenti: esibizioni sozze di birra e sudore, slalom per evitare di finire spiaccicati addosso all’energumeno di fronte, persino una pseudo auto-impiccagione in diretta del cantante Charlie Steen, che passa il resto della serata a sfidare il prossimo accennando un sorrisetto sardonico o facendo una fontanella di sputi. Ogni anno che passa si ha l’impressione che le location siano delle scatole comprimenti, nel frattempo gli organizzatori dei festival li stanno scoprendo. Gli Shame vogliono un pubblico atletico, riottoso, ma anche capace di immergersi sino alle loro radici, nel substrato skinhead dei bambini della working class, stesso identico panorama avvistato all’alba degli anni Ottanta, quando gli urlatori seriali dei quartieri fumanti si accompagnavano a delle chitarre pulite che salutavano per sempre i riff rotolanti della British Invasion.

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Teste rasate o a spazzola, camicia e pantaloni di papà: la loro infanzia non fu del tutto diversa da quella di Shaun di This is England (2006). Non appena la campanella suonava la fine delle lezioni, i cinque si fiondavano nel Queen’s Head, un pub ora trasformato in un locale per palati più raffinati: tanti ragazzi più grandi bazzicavano da quelle parti e non mancavano soggetti identificabili in Combo, un gruppetto punk di razzisti conosciuto in tutto il mondo con il nome di Fat White Family; fortunatamente allo schifo facevano da contraltare tantissimi Woody, uno di questi fu il primo mentore del quintetto, Chilli dei Palma Violets, che li accompagnò per registrare le prime demo. Nel piano superiore del Queen’s Head, la vecchia strumentazione dei Fat White Family tenuta in piedi da un miracoloso nastro adesivo resisteva ai colpi di Charlie Forbes, il batterista e figlio dell’amico del “padrone di casa”; contemporaneamente, l’esperienza musicale del quintetto si arricchiva di incontri fortuiti: prima Segs dei Ruts, poi Larry Love degli Alabama 3, infine Rumer, che regalò ai ragazzi una batteria e un microfono. Alla lista infinita delle occasioni “da fattore C” si aggiunse l’utilizzo gratuito di una saletta dei Dropout Studios di Camberwell.

Non è difficile individuare dell’ironia nel titolo del loro album di debutto, d’altronde i cori soavi in apertura alle funzioni domenicali sono delle liriche ispirate da un certo Dio. Qual è il dio degli Shame? È la realtà nei suoi idoli e nelle sue forme inalterate, graffiate, deturpate e rancide: in Dust on Trial viene compromessa la credenza di una terra promessa, impolverata e insanguinata dal folle frustrato che viene ritenuto saggio dagli estranei, mentre in Concrete, fiondati in un confessionale, si assiste ad un interrogatorio così snervante da essere ai limiti della demenza. Quattro anni di carriera alle spalle, età media di vent’anni: sono ancora dei bambini che si divertono a scrivere dediche di non amore agli schizzinosi di turno (One Rizla), a far sbarellare i propri spettatori con una manciata di rime baciate (Donk), a raccontare storielle sconce (Gold Hole), ad essere persino seducenti nella loro goffaggine (Lampoon).

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Mai giudicare un album dalla sua copertina: sotto la loro idiozia si cela la necessità di far sentire la propria voce su argomenti scottanti quali la Brexit (il singolo Visa Vulture) e l’estremismo che si fonda sulla paura del diverso (Tasteless), di far girare dei brani che siano opinabili, non dunque apprezzati unicamente per l’inventiva tecnica o perché rispettano la moda del momento. È in The Lick che si concentrano le istanze del gruppo: i cinque trovano incredibile l’incapacità di alcune band indie di successo di raccontare di ciò che li circonda, della politica in primis perché è parte integrante di chi ha un minimo di senso civico; Steen ritiene che la figura della rockstar avvolta da un giubbotto di pelle, imbottita di cocaina e desiderosa di sesso sia un insulto all’umanità, non è altro che un personaggio opposto al tipo di arte da loro perseguito, fatto di parole e non di gesti plateali.

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In a time of such injustice

How can you not want to be heard?

In Friction, Steen è al limite dell’afonia eppure si sforza, è alla ricerca di intrepidi ribelli desiderosi di mettersi in gioco per la salvezza della propria società dal naufragio imminente, ruotando il timone alla volta di un futuro più solidale verso il prossimo. L’album Songs Of Praise non è altro che un diario di bordo scritto da fanciulli alla soglia del mondo adulto, in esso si può leggere un pensiero ancora acerbo, tuttavia fuori dalle aspettative, se non addirittura raro: pare che la maggior parte degli esordienti di oggi pensi di più a strabiliare con un sintetizzatore che ad essere privi di tatto nella propria sincerità. Caro fruitore di quest’articolo, se pensi che “i musicisti non debbano parlare di politica” stai trascorrendo il tuo tempo dentro una bolla di sapone: sarebbe il caso di romperla con una leggera ditata e partecipare vivamente alla difesa dei tuoi diritti. Senza dubbio, Combat Rock è ascoltato più dagli Shame che dalla sottoscritta, che ha appena finito di tediarti con questa lunga digressione.

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Intonando l’ultimo cantico, gli Shame dimostrano di aver maturato la loro sensibilità verso i fatti attuali, in particolare hanno riflettuto a lungo sulla condizione delle donne vittime di un rapporto annichilente travestito da amore. Angie non è riuscita a resistere alla morsa di chi non si preoccupava del suo sentire, il narratore; lui stesso ora si è assunto le sue responsabilità, canta gutturalmente una nenia cullante, mentre i tocchi lenti e leggeri agli strumenti sono l’unico tenero eco di lei. Volontà di redenzione? Sicuramente, ma è necessario ricordare uno dei casi più comuni della nostra vita da ascoltatori, il primo approccio con un testo musicale: spesso comprendiamo il vero significato di un componimento in un secondo momento, allo stesso modo dell’impresa quasi impossibile di aggirare un iceberg. Per cantare queste tracce, gli Shame hanno preso in prestito la voce degli individui maschi ammorbati dalla perversione, mettendo per iscritto il loro punto di vista meschino, ma contemporaneamente hanno ridato giustizia alle donne che prima di allora erano state private di un diritto di replica, attraverso corde e frasi delicate.

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Nonostante abbiano l’aria di mostrarlo scoperto ai concerti, gli Shame non sono solo la band “dal culo enorme”, tantomeno un’accozzaglia di incoscienti: respirano a pieni polmoni l’aria della generazione precedente senza sembrare scontati. Le loro fonti di ispirazione sono senz’altro la tetraggine di Ian Curtis e Nick Cave, il senso critico di Mark E. Smith, la goliardia dei Madness, l’arroganza di Johnny Rotten e gli arrangiamenti dei Wire. Il tono da predica ripreso dal leader dei The Fall è unito ad una visione più concreta, mentre lo stile da hit dell’alternative britannico di One Rizla, Gold Hole e Angie fa vagare la mente sino ai La’s (seppur avessero amato di più l’acustica) e agli Stone Roses, la band perfetta da supportare in qualche festival sperduto nelle Midlands.

Gli elementi ricorrenti nelle loro canzoni sono il protrarsi degli stessi accordi e degli stessi giri, la presenza sporadica di riff, la prevalenza di singole note: è opportuno chiedersi dell’origine di questo schema fisso, se esso sia una volontà di attenersi al passato in maniera autentica oppure se sia una conoscenza musicale ancora limitata. Ricercandone il motivo, la critica si è spaccata in due, c’è chi ha trovato in Songs Of Praise l’album dell’anno nonostante fosse uscito il 12 gennaio e c’è chi ha accusato il gruppo di poca originalità; si rimanderà l’ardua sentenza al secondo album, intanto il gruppo di Brixton sta facendo il giro del mondo e tra non molto arriverà nella nostra terra: il 12 maggio sarà ospite al Covo Club di Bologna; in attesa di questo momento potete scoprire le avventure mirabolanti dei cinque sulle piattaforme social più seguite, FacebookTwitterInstagram. I ragazzi sono ancora su Bandcamp ma hanno appena fondato il proprio sito web; quest’estate calcheranno i palchetti di due dei più importanti festival europei, il Benicàssim e lo Sziget. Se siete claustrofobici e amate trascorrere i vostri giorni di vacanza in un luogo sereno in altura ma vicino al mare, non c'è problema: la settimana scorsa è stata annunciata la loro presenza all’Ypsigrock di Castelbuono (PA).

Gli Shame sono (da sinistra a destra): Eddie Green e Sean Coyle-Smith, i chitarristi; Charlie Steen, il cantante; Charlie Forbes, il batterista; Josh Finerty, il bassista.