The Suburbs degli Arcade Fire compie 15 anni: il nostro approfondimento dedicato all'album capolavoro di Win Butler, Régine Chassagne e soci.
Per quanto possa essere bello constatare che un’opera d’arte non sia invecchiata di un giorno, comprendere perché sia rimasta attuale è un compito imprescindibile per chiunque voglia parlarne, potenzialmente destinato a conclusioni quantomeno dolceamare.
Quindici anni fa, esattamente il 2 agosto del 2010, gli Arcade Fire pubblicavano il loro terzo album, The Suburbs, 16 brani per più di un’ora di musica che cristallizzarono la band canadese nell’olimpo della musica alternativa dopo il clamoroso esordio con Funeral (2004) e il comunque ottimo Neon Bible (2007) a seguire.

Proprio dalla loro opera prima Win Butler, Régine Chassagne e compagnia riprendevano uno dei temi cardine, appunto quello dei suburbs ("sobborghi" che possiamo tradurre come “periferia” per comodità, nonostante l’accezione nordamericana del termine contenga sfumature di significato diverse dalle nostre) trasportandola sia nello spazio che nel tempo: nello spazio, perché la periferia da cui volevano scappare in Funeral si è trasformata in un luogo verso cui tornare; nel tempo perché questo ritorno avviene da adulti, ormai sul punto di mollare del tutto la presa sulla propria gioventù. Eppure, parallelamente, spazio e tempo sono protagonisti di un piano astratto e spiccatamente emotivo, nonché ribaltato: i suburbs si trasformano in un luogo dell’anima verso il quale provare nostalgia per un passato che alla luce del presente non sembra poi così male. Lo spazio e il tempo si intrecciano per offrire un rifugio tanto agognato quanto idealizzato, e per questo almeno in parte falsato.

Nell’omonima title track gli Arcade Fire gettano subito un ponte tra passato e presente, e non è un caso che il primo sostantivo del disco sia proprio suburbs:
“In the suburbs, I
I learned to drive
And you told me we'd never survive
Grab your mother's keys, we're leaving”.
Il primo concetto del disco è legato alla fuga, passando per quelle stesse strade dove abbiamo imparato a guidare e che adesso vogliamo lasciarci alle spalle. Quel “tu” compagno di viaggio, prendere le chiavi dell’auto della madre: in quattro versi sappiamo dove, quando e chi, senza nemmeno il bisogno di scomodare nomi di cose, persone o luoghi specifici.
Il passaggio successivo è il ricordo di una previsione apocalittica, in cui la possibilità di una guerra di periferia tra diverse parti della città è una prospettiva eccitante per un ragazzino, che tuttavia si esaurisce immediatamente: “[...] by the time the first bombs fell we were already bored”. Esiste qualcosa di più adolescenziale della noia? Forse solo il desiderio di essere grandi, o quantomeno sembrarlo. I versi di Win Butler invece richiamano alla memoria i giorni passati a gridare e rincorrersi, una giovinezza non intaccata dalla smania di crescere. Ma poi il tempo passa e i desideri cambiano, e ce n’è uno in particolare che colpisce in questo pezzo:
“So can you understand
That I want a daughter while I'm still young?
I want to hold her hand
And show her some beauty before this damage is done”.
Diventare genitore finché si è ancora giovani per assicurare ad una figlia l’ultimo scampolo di bellezza, prima che sia troppo tardi. Ma troppo tardi per cosa? Da dove arrivano queste ombre?

Ebbene non è di ombre che si parla, anzi. Sembra paradossale, ma sono le luci il problema. Facciamo un salto verso la fine della tracklist, alla combo Sprawl I (Flatland) e Sprawl II (Mountains Beyond Mountains), i due pezzi più significativi dell’intero disco. Qui troviamo le luci dei poliziotti che illuminano le biciclette dei ragazzi, usciti alla ricerca della loro vecchia casa. “Sapete che ore sono? Dove vivete?” chiedono, innescando una delle riflessioni più potenti del disco:
“Well, sir, if you only knew what the answer’s worth
I’ve been searching every corner of the earth”.
Gli autoproclamatisi difensori dell’espansione urbana ammettono di non saper rispondere fino in fondo alla domanda “dove vivete?”. Eppure sanno di appartenere ad un posto, a quel posto, minacciato dalle luci onnipresenti di una città in rapida e inevitabile espansione.
La voce delicata di Régine Chassagne, qui moderna Debbie Harry, racconta di come di notte i sentimenti più profondi vengano in superficie, esposti al bagliore emesso da centri commerciali sempre più numerosi, sempre più alti, come montagne che si susseguono senza fine. “I need the darkness; someone, please cut the lights!” è il grido d’aiuto che riecheggia nella notte. E come se non fosse abbastanza, tornano anche le luci delle torce dei poliziotti:
“We rode our bikes to the nearest park
Sat under the swings and kissed in the dark
You shield my eyes from the police lights
We run away, but we don't know why”.
Uno scenario autoritario diventa sempre più nitido, le voci vengono ridotte al silenzio, addirittura si sente gridare “non abbiamo bisogno di quelli come voi”. È questo il futuro della periferia? E se il mondo è così piccolo, perché non si vede la fine della città? Esiste ancora uno spazio non illuminato da quelle maledette luci?
Questi due pezzi ci aiutano a capire due cose: la prima è perché la nostalgia per un luogo che è cambiato così tanto ci porti a desiderare di tornare indietro, e la seconda è che in fondo non è tanto dove vogliamo tornare, ma a quando. The Suburbs è un grande album perché parlando solo di luoghi e spazi riesce a raccontarci di un tempo passato che diventa un modello per l’idea stessa di felicità. Tornare indietro non è impossibile solo perché quel luogo non esiste più, o perché è cambiato; no, tornare indietro è impossibile perché siamo cambiati noi, diventando adulti, costretti a voltarci indietro per poter almeno sperare di essere stati felici in un certo punto dello spazio e del tempo.

In una manciata di brani questo concetto è espresso particolarmente bene. Oltre ai già citati Sprawl I e II, in Wasted Hours troviamo il ricordo di tutte quelle ore che, seppur “sprecate”, erano sinonimo di calma, tranquillità e leggerezza: sicuramente insopportabili per l’insofferenza di un adolescente, ma viste con tenerezza dagli occhi di un adulto. In questo brano inoltre troviamo una sorta di premonizione legata a Sprawl II e al sentimento claustrofobico per una città che non finisce mai: “First they built the road, then they built the town / [...] That’s why we’re still driving around and around”. Il ricordo della città in espansione prima che diventasse una prigione.
A Wasted Hours si lega a sua volta The Suburbs (Continued), brano che chiude il disco:
“If I could have it back
All the time that we wasted
I’d only waste it again
If I could have it back
You know I would love to waste it again
Waste it again and again and again”
confermando ulteriormente che il punto del disco è il tempo, più che lo spazio. Torna il medesimo concetto del “tempo sprecato”, permeato dalla stessa tenerezza di Wasted Hours. Il lusso di buttare via qualcosa di così prezioso è uno dei più grandi rimpianti dei protagonisti di questo disco, ora che età e stile di vita non lo permettono più. Gli archi discreti, a riposo, e le voci appena sussurrate raccontano l’amara epifania, mantenendo una base di dolcezza di chi sa di aver comunque avuto il proprio bel momento, seppur senza averlo messo completamente a fuoco in tempo reale.

Ciò che invece è decisamente a fuoco è l’impalcatura musicale di The Suburbs: se da una parte manca l’impostazione folk-rock ombrosa di Funeral con i suoi occasionali scoppi di chitarre o le corse sostenute di Neon Bible, anche qui gli Arcade Fire si dimostrarono un gruppo capace di una crescita organica e di una coesione affatto scontata: solo Month of May esce fuori dal coro con le sue velleità “punk”, forse non rivelandosi all’altezza degli altri pezzi e addirittura stonando un po’ con il sound del resto del disco. In The Suburbs regnano chitarre acustiche e pianoforte, un utilizzo massiccio di strumentazione orchestrale (in particolare gli archi) e sintetizzatori che fanno ora da tappeto, ora da note di colore collaterali al corpo dei pezzi, ancora guidati dal power trio chitarra/basso/batteria. Un aspetto interessante è che struttura e arrangiamenti virano spesso e volentieri verso un pop barocco (Rococo è un ovvio esempio) o ne sono fortemente influenzati, mentre si sentono forti e chiare le influenze degli ultimi Beatles, del Bowie di Heroes, un paio di momenti alla Neil Young (prendiamo ad esempio l’accoppiata Wasted Hours / Deep Blue) e soprattutto di Bruce Springsteen (City with No Children salta subito all’occhio in questo senso). Ne deriva una miscela che non ha bisogno di nascondere la propria complessità, ma anzi la lascia intravedere grazie ad arrangiamenti che godono del respiro necessario per non appesantire il prodotto finale.
La menzione d’onore va a Sprawl II (Mountains Beyond Mountains), che come già accennato in precedenza riporta alla mente echi dei Blondie, guidata dalla voce di Chassagne e sostenuta da un synth bass tondo e ruggente, oltre che da un arpeggio sempre affidato ad un sintetizzatore dalla seconda strofa in poi, origine di interventi semi-nascosti di chitarre piene di feedback e ondate di archi, anch’essi sintetici in questo caso, che arrivano e si ritirano senza preavviso.

Solo la lunghezza e una certa ridondanza possono essere imputati a The Suburbs come punti deboli, mentre già ai tempi dell’uscita dell’album Pitchfork scherzò sulla quantità di volte in cui Win Butler nomina la parola “kids”, immaginando che ne fosse già derivato un drinking game a tema.
Dettagli che se da una parte rendono The Suburbs un album non perfetto, dall’altra testimoniano una volontà e un’impeto creativo non indifferenti, e non stupisce che non solo l’album venne recepito benissimo dalla critica (vincerà il premio come “Album dell’anno” ai Grammy), ma diventò quasi immediatamente un fan-favourite.
Ciò che lascia l’amaro in bocca è che alcuni temi cardine del disco, come l’urbanizzazione incontrollata, lo spaesamento e la speranza mai sopita di veder crollare il mercato immobiliare mondiale rimangono più che mai attuali, e anzi hanno toccato livelli mai raggiunti prima, campeggiando ogni giorno tra i notiziari e i nostri feed social.
La nostalgia di essere appartenuti a qualcosa e a qualcuno, e di aver davvero posseduto qualcosa di bello in questi quindici anni si è addirittura amplificata. Se non altro, che questo disco possa continuare a essere una testimonianza di questi tempi difficili, con la consapevolezza di non essere soli, e con la speranza di non perdere quel poco che abbiamo.
“Well, sir, it’s the first time I felt like something is mine
Like I have something to give”.