Chi avrebbe mai potuto immaginare che le prime date di un tour possano costituire il periodo più eccitante per un artista. Si è portati spesso a pensare che proprio l’ansia da prestazione, le prime prove, i primi soundcheck, possano provocare preoccupazione, senza considerare il cambio improvviso di stile di vita. Dal tragitto casa – studio di registrazione, si passa a camera d’albergo – pulmino – palazzetto. Ed è proprio da un mini van, parcheggiato probabilmente in prossimità del La Nau di Barcellona, che Marteen Devoldere, in arte Warhaus, ci racconta l’esatto opposto: «Adesso siamo all’inizio, ai primi concerti, ovvero il tipico momento dove sei carichissimo. La cosa più entusiasmante è vedere l’evoluzione dello show già dopo queste prime date e immaginare come evolverà più avanti, live dopo live».
Marteen, noto soprattutto pe essere il frontman della band belga Balthazar, lo scorso novembre ha pubblicato il terzo album solista Ha Ha Heartbreak, un disco pop cantautorale raffinato e cinematografico con, guarda caso, una storia da film dietro. Tutto ha inizio dalla fine di una relazione amorosa, quando Devoldere si rifugia a Palermo per superare il momento di dolore e scrivere nuova musica. In una camera d’hotel scriverà tutte le dieci tracce: chitarra, voce e una buona dose di amarezza nel cuore.

Come mai Palermo e l’Italia?
È stata una vera e propria coincidenza. Stavo vivendo un periodo complicato e volevo un luogo dove potessi concentrarmi solo sulla musica. Una scelta che avevo già preso quando ho scritto il mio primo album (We Fucked a Flame Into Being, 2016, ndr) come Warhaus. Anche allora decisi di allontanarmi dalla routine e dalla mia vita quotidiana in Belgio. Una sorta di parentesi come lo è stata Palermo. Ho parlato di coincidenza perché non è che l’abbia scelta io la città, ma ho colto un’opportunità, dato che conoscevo un amico lì. Così ho preso i biglietti, ho prenotato la camera d'albergo e sono partito. E solo molto più tardi ho notato e percepito veramente le vibrazioni della città, la sua atmosfera romantica e un po’ nostalgica. Credo che il suono e il mood dell’album rifletta proprio queste sensazioni. Si può sentire il sentimento romantico europeo.
Hai detto che ti sei reso conto della bellezza di Palermo solo successivamente. Non l’hai visitata mentre eri lì?
No, ero così coinvolto nel mio processo creativo che non ho quasi mai lasciato la mia camera d’hotel. Lavoravo tutto il tempo, scrivevo in continuazione. Uscivo solo per prendermi qualcosa da mangiare, spesso optavo per la pizza (ride, ndr). Un anno dopo, quando l’album era praticamente finito, sono tornato in Sicilia con due miei amici, un fotografo e un videomaker, per realizzare tutto il materiale visuale necessario per la promozione e le immagini da mettere nel disco. Non potevamo scegliere un posto che non fosse Palermo, dato che era lì che avevo scritto tutte le canzoni. Ed è stato solo in quei giorni che mi sono detto: “Caspita è davvero una bella città!”.
I giorni di lavoro a Palermo sono stati quasi alienanti quindi.
Sì, direi abbastanza. Ricordo che la mia stanza d’albergo si trovava in mezzo ad altre due camere. Quindi avevo i vicini del lato destro e quelli del lato sinistro. A destra abitava un uomo adulto, sempre nervoso e arrabbiato. Ogni volta che iniziavo a registrare e a cantare - o a urlare, dipende dai punti di vista - lui batteva il pugno sul muro: “Shut the f*** Up” (più probabile un italianissimo "Stai zitto c****" n.d.r.). Sul lato sinistro invece c’era una coppia: credo che fossero molto innamorati perché facevano sesso tutto il tempo. Li sentivo in continuazione e, credimi, quando stai attraversando la fine di una relazione, non è molto bello sentire qualcuno mentre fa l’amore. È stata una tortura.

Immagino che il tuo prossimo concerto in Italia, il 9 marzo a Milano, sarà speciale per te.
Sì, sicuramente. Anche se, ho già suonato molte volte in Italia, sia come Warhaus che con i Balthazar. Mi piace visitare il vostro Paese. Questa volta però sarà diverso, ancora più speciale. Avendo scritto l’album lì, è come se fosse la Terra Santa dove tutto è stato creato. (ride, ndr)
Ha Ha Heartbreak parla della fine di una relazione ed è stato scritto in un momento molto doloroso. La musica è stata la tua prima idea per superare quel dolore?
Io non ho mai creduto davvero nell'idea che la musica sia terapia. Penso anche che ciò significherebbe che noi artisti abbiamo una sorta di scorciatoia, come se ci servisse stare male. Io ritengo, invece, che quando vai incontro a una forte delusione amorosa devi solo far passare il tempo. Non c’è altro modo. Io scrivo sempre, anche quando sto bene o quando la mia vita va alla grande. In quel periodo il dolore per la fine della relazione è stato un’ispirazione talmente forte che ogni cosa che scrivevo trattava di quell’argomento. È stato molto naturale. Soprattutto nel folk c’è questo cliché della mancanza e della lontananza di qualcuno a cui tieni ed è come se attraverso la musica tu tenti di riempire quel vuoto. Non sono sicuro che funzioni, ma è una cosa molto bella e misteriosa.
Hai definito le canzoni che hai scritto in Sicilia come un make-up, un vestito per affrontare il dolore. Quindi, è come se stessi descrivendo la tua situazione da un punto di vista esterno.
Non ricordo bene perché lo descrivessi in questo modo. Adesso viene da riderci su, ma allora ne ero piuttosto convinto. Io credo che volessi usare questa definizione perché tutti continuavano a dirmi che l’album era molto groovy e sexy, non il classico disco di un cantautore. E io rispondevo dicendo: “Sì, è vero. Perché quando ti senti umiliato dalla vita vuoi indietro il tuo orgoglio o qualcosa del genere. Quindi ti piaci, ti metti un bel vestito, dici, ok, ora esco stasera. Magari conosco una nuova ragazza. E quindi per me, i groove e gli arrangiamenti del disco sono i miei abiti”.
Musicalmente l'album sembra molto felice, persino ballabile come in It Had to Be You. Invece, i testi sono più tristi. Questo contrasto è evidente anche nel titolo Ha Ha Heartbreak. Cosa significa?
Tutti pensano che sia una trovata sarcastica o qualcosa del genere, ma per me, soprattutto da un punto di vista fonetico, suonava come un gancio, qualcosa di accattivante. È curioso come uno passi un periodo difficile e riesca a tirarne fuori un album che è un progetto vero e proprio, ha canzoni e cori. E poi lo vendi addirittura in un negozio. Con questo titolo volevo rendere in qualche modo orecchiabile il concetto del cuore spezzato. Rendere catchy la parola Heartbreak. C’era una canzone che alla fine non è stata inclusa nel disco che aveva dei cori che facevano “Ha Ha Ha” (canta, ndr) e per me erano perfetti per rendere pop un argomento così triste e complesso. Così sono finiti nel titolo.
Una delle mie trace preferite è Shadow Play perché è una di quelle dove più apertamente viene fuori questo continuo contrasto tra parole e musica. In particolare quando subentrano gli ottoni nel finale. Avevi immaginato la traccia in questo modo fin dall’inizio?
No, come gli altri brani, è stato un po’ rielaborato successivamente. Quando sono rientrato da Palermo le canzoni erano molto diverse da come sono ora. La maggior parte di esse erano delle composizioni chitarra e voce, solo in alcuni casi avevo programmato delle percussioni. La mia idea era incentrata sullo scrivere dei brani acustici. Una volta tornato in Belgio sono ripartito per l’Austria per lavorare alla produzione con Jasper Maekleberg. Lui è rimasto colpito dal tono della mia voce che è rimasta quella delle demo e non è stata riregistrata. Da lì abbiamo aggiunto le linee di basso e tutto il resto. All’inizio ero un po’ riluttante perché sentivo che avrei potuto cantare meglio di come avevo fatto nella mia camera d’hotel a Palermo, volevo persino cambiare i versi di qualche canzone. Col senno del poi la scelta di Jasper è stata quella giusta: si percepisce l’onestà delle emozioni che canto e traspare anche una certa vulnerabilità. Insieme rappresentano l’anima del disco. Ed è anche per questo che abbiamo iniziato a usare gli archi, suoni glamour e orchestrali. Ci piaceva il contrasto che si generava con l'intimità della voce.
Nel disco si possono notare moltissime influenze, la più evidente è la componente soul che rimanda all’immaginario di Marvin Gaye. In che modo sei riuscito a connetterla con il tuo stile? Hai ascoltato i suoi dischi mentre eri a Palermo?
No, non l'ho fatto. Quando scrivo un album non ascolto mai musica. E se la gente mi chiede quale siano state le influenze, spesso non so rispondere. Se si percepiscono dei riferimenti è solo il frutto di ascolti del passato. Tutto ciò che ascolti credo che poi trovi un piccolo spazio nel tuo stile. Il tuo sound non è altro che una combinazione di tutto ciò che hai sentito fino a quel momento. Quando ero più giovane ascoltavo Leonard Cohen e Bob Dylan. Negli ultimi anni invece mi sono concentrato molto sul soul, non solo Marvin Gaye, ma anche Curtis Mayfield. Forse questo è stato decisivo e ha influenzato un po' il mood dell'album, ma è comunque tutto avvenuto a livello subconscio.
Ho trovato molte canzoni dell'album, soprattutto Open Window o Batteries & Toy, cinematografiche. Da dove deriva questa scelta stilistica?
Credo che sia insito nel mio DNA, non riesco davvero a spiegarmi questa cosa. È come se fossi sempre alla ricerca di una certa atmosfera, è qualcosa a cui do molta attenzione. Quindi forse è questo che restituisce una sensazione cinematografica a chi ascolta.

La cura cinematografica si nota anche nei videoclip. Per esempio in quello di Open Window i dettagli sono molto importanti. Tra tutti gli oggetti che volano dalla finestra ci sono anche i dischi dei Balthazar.
È stato divertente. Negli anni dalla tua casa discografica ottieni questi dischi d’oro che sono esteticamente terribili e che trovo anche un po’ imbarazzante appendere in casa. Li ho avuti tra i piedi per anni senza sapere cosa farmene, sono rimasti in garage da qualche parte. Quando ho comprato casa nuova, ho dovuto traslocare tutta la mia roba e i mobili. Se non me l’avesse ricordato un mio amico li avrei lasciati là. Non sapevo davvero cosa farmene. Quando ci è venuta l'idea del video e abbiamo deciso che avremmo lanciato delle cose fuori dalla finestra, mi sono detto: “Oh, ho qualcosa di cui vorrei liberarmi per sempre e questo è un modo molto carino per sbarazzarsene”. E la cosa bella è che quando li abbiamo buttati fuori dalla finestra, dato che sono di vetro o qualcosa del genere, ci aspettavamo che si frantumassero in mille pezzi e invece, come puoi vedere nel video, non si sono rotti. L’ho interpretato come un messaggio dell’universo, come se mi avesse detto di avere rispetto di quanto ho fatto e raggiunto in passato.
A proposito dei Balthazar, ci sono nuovi progetti in cantiere?
Quest’estate suoneremo in qualche festival, ma a parte questi concerti non stiamo ancora lavorando a un nuovo album. L’ultimo nostro live è stato solo a settembre e credo che la pausa debba essere più lunga. Abbiamo bisogno di questi periodi di stop per ritrovare quell’urgenza e quell’ispirazione necessarie per tornare a scrivere qualcosa insieme. Altrimenti si rischia di perdere l’entusiasmo. È ancora troppo presto.

Warhaus si esibirà al Circolo Magnolia, giovedì 9 marzo: biglietti disponibili qui.