Chi è Des Rocs? È un ragazzo di New York, audace, arrogante al punto giusto e con un sogno nel cassetto da quando era piccolo: portare la sua idea di rock'n'roll in giro per il mondo. La giacca di pelle e il ciuffo con la brillantina a primo impatto vi possono far pensare che sia nato nell'epoca sbagliata o che sia il frutto di un revival alla Greta Van Fleet. Nulla di più falso. "Feticizzo il passato, ma sono felice di vivere in questa epoca, perché faccio della musica che nessuno fa in giro" mi dice sorridente, mentre mi parla del suo secondo album Dream Machine. In un certo senso è una sorta di incarnazione del sogno americano, una cosa in cui in molti non credono più da anni. Danny Rocco, questo il suo vero nome che rivela le sue origini italiani, è uno che come direbbero a Napoli ha la cazzimma. Nonostante gli alti e bassi affrontati durante anni e anni di gavetta non ha mai mollato. Ma quindi, chi è Des Rocs? "È uno che lotta, che va contro i pronostici e si rialza ogni volta che cade" mi dice lui con una scintilla negli occhi. Ecco cosa mi ha raccontato durante la nostra chiacchierata sul suo tour bus che lo sta portando in giro per l'Europa.

Cosa provi a suonare qui in Italia, essendo di origini italiane?
È bellissimo, è un sogno che si è avverato. Ero già stato in Italia, ma solamente come turista. Nelle vene mi scorre sangue italiano: i miei antenati emigrarono dall’Italia in America alla fine dell’Ottocento e per i successivi 120 anni la mia famiglia non si è più spostata da New York.
Cosa bisogna aspettarsi da un live di Des Rocs?
Un sacco di passione, energia e caos: in una parola, rock'n'roll!
Hai dovuto cestinare un concept album per arrivare a scrivere Dream Machine. Sarà stato un processo molto complicato e faticoso.
Non direi che ho faticato, lo è solo se ti aspetti di trovare subito ciò che vuoi esprimere. La cosa più importante è capire cosa vuoi comunicare con la tua opera: è quella la cosa che richiede più tempo. A volte scrivi e fai musica senza sapere cosa vuoi dire, finchè non ti arriva l’ispirazione dall’alto. È così che avevo iniziato a buttare giù le idee per il concept album, però poi mi sono reso conto che non volevo andare in quella direzione: da quella decisione ha iniziato a prendere forma Dream Machine.
A un certo punto hai anche deciso di togliere un riff da un pezzo che avevi appena scritto e usarlo per un’altra canzone.
Ho un sacco di riff che penso siano i migliori che abbia mai scritto, ma devono soltanto trovare la loro casa. È comodo perché ogni volta che ho bisogno di un nuovo riff, ripenso alle cose che ho scritto e quindi così mi ricordo di qualcosa che magari avevo scritto due anni fa e che non avevo ancora mai usato. Certo non è una cosa che mi succede spesso, ma quando capita è bello.

Fra il tuo disco d’esordio e questo tuo secondo album ci sono parecchie differenze, come le riassumeresti?
Il mio primo album è il riflesso di me che suono da solo in una stanza parlando con me stesso. Tutto quel disco è un monologo: un album cupo, depresso, scritto durante il Covid in uno stanzino completamente da solo con i miei strumenti e un computer. D’altronde penso che l’arte debba riflettere ciò che stai vivendo. Invece Dream Machine è tutto l’opposto: rappresenta la fine di quel periodo e la celebrazione del rock e di tutto quello che mi ha fatto innamorare della musica.
Come molti musicisti hai dovuto lottare parecchio per essere dove sei ora.
Des Rocs significa lottare, andare contro i pronostici e rialzarsi ogni volta che si cade. È una mentalità vecchio stile che ha a che fare col realizzare questo sogno che ho da quando ero un bambino, di fare musica e farla ascoltare al mondo. Dopo anni e anni che ho lottato per questo sogno, ora finalmente inizio a vedere la luce ed è una cosa bellissima.
Hai mai pensato che non ce l’avresti fatta?
Sì, tutto il tempo. In molti mi hanno supportato e in molti mi hanno dato per spacciato. Ci sono stati molti alti e bassi. È una maratona.
Rimpiangi mai di essere nato in quest’epoca? Il rock non se la passa particolarmente bene.
Ho sempre feticizzato il passato, a partire da come mi vesto: il 90% dei miei vestiti è vintage. Ma la nostalgia per le altre epoche è una cosa comune: negli anni 50 le persone rimpiangevano gli anni ‘20, quelli di quegli anni feticizzavano a loro volta la fine dell’800, e così via. È un istinto umano di cui sono consapevole. Quello che davvero invidio però è la vita senza cellulari. Non importa in che epoca io viva, ma questo coso (prende in mano il cellulare, ndr) mi fotte il cervello. Penso che l’anno migliore per la tecnologia sia stato il 2008: per me dovremmo tutti tornare indietro a quell’anno. Avevamo Messenger, Maps, magari qualche app basilare, le email e basta. Ma scherzi a parte sono felice di vivere al giorno d’oggi, perché faccio della musica che non fa nessuno in giro. Sarebbe davvero spaventoso vivere nella stessa epoca di Freddie Mercury o di un giovane Jimmy Page. Ci sarebbe un sacco di competizione! (ride, ndr).
Ci sono band al giorno d’oggi come i Greta Van Fleet che però emulano determinati artisti del passato, fra cui proprio i Led Zeppelin. Che ne pensi di loro?
Per molto tempo ho avuto il loro stesso manager, quindi conosco molto bene il team che ci sta dietro. Ogni volta che qualcuno sale su un palco con una chitarra e la gente paga il biglietto per vederlo è una vittoria e io farò sempre il tifo per quell’artista. Ma in fin dei conti una band come quella è un prodotto creato dal 2016-17 dove la società è stata dilaniata da lotte interne, come accaduto con l’elezione di Trump, dove la gente lo attaccava, un’altra fazione accorreva in suo aiuto e così via. I Greta Van Fleet sono l’equivalente musicale di questa cosa qua. Sono stati catapultati al successo grazie all’engagement dei loro post, dove la gente si scannava riguardo la loro musica. Non è un tipo di cosa che mi appartiene. A me interessa veicolare un mio messaggio molto specifico nella mia musica e ci tengo molto, mentre loro sono una band molto divisiva. Poi sai, non conosco bene la loro musica, se non giusto i loro brani più famosi.
Sui social sei molto attivo e dall’esterno uno direbbe che ti piace molto stare al cellulare, ma da quello che mi hai detto poco fa…
Per me sui social bisogna essere se stessi. Molti artisti hanno l’ansia di sviluppare il proprio personaggio, il proprio brand sui social. Mi dispiace per loro. Dovrebbero preoccuparsi di fare musica ed essere se stessi e basta. Se sei abbastanza libero di essere te stesso e di divertirti è una vera benedizione. Sono molto felice di essere così. Comunque sai non ce l’ho con i social in sé, quanto alla dipendenza che causano alle persone.
Tornando a Dream Machine, come sei arrivato a lavorare con Alain Johannes?
Gli ho mandato un messaggio su Instagram, sono spudorato, non mi faccio problemi. Volevo lavorare con lui nonostante non conoscessi benissimo il suo lavoro da solista, ma sapevo che tutti i progetti in cui aveva lavorato mi rispecchiavano molto. È stato incredibile, è una persona che dà un grande supporto, ha tirato fuori il meglio da me. È probabilmente l’uomo più gentile e disponibile che abbia mai conosciuto, nonché uno dei migliori chitarristi che abbia mai visto in vita mia.
Il disco è stato prodotto anche da Matt Wallace (Faith No More, Maroon 5, ndr).
Anche Matt è incredibile. Per questo disco volevo riuscire a tirare su il mio dream team, fatto di persone che pensavo potessero aiutarmi specialmente in studio. E questi sono tutti dei figli di puttana old school, che sanno esattamente cosa fare in uno studio registrazione.

A volte ci sono artisti che cercano le hit e le trovano, ad altri artisti invece magari capita senza provarci. Tu cosa ne pensi?
Non lo so, ti farò sapere quando avrò una hit (ride, ndr). Penso che semplicemente non si può mai sapere. So solo che mettersi a inseguire qualcosa è uno spreco di energie. Anche perché sai, magari tu scrivi un pezzo che potrebbe essere una hit, ma la casa discografica non la promuove bene e nessuno la sente. Così come magari hai una canzone che non è un granchè, ma viene talmente tanto spinta che il pubblico se la ritrova ovunque e magari finisce per farsela piacere.
Hai aperto i concerti di band enormi, fra cui i Rolling Stones. Qual è stata l’apertura a cui sei più legato?
Probabilmente quella per i Muse, dato che sono un loro grande fan e sono cresciuto con la loro musica. È stato folle aprire le date del loro tour. Alla prima data in Norvegia, arrivo al palazzetto dello sport in giornata, trovo Matt sul palco, voglio salire per salutarlo salgo, ma vengo bloccato da uno della security che mi fa “non disturbarli”. Quella sera abbiamo fatto tremare tutto il palazzetto con 25.000 persone impazzite che saltavano. Scendiamo dal palco e lo stesso tizio della security ci ferma e ci dice che i Muse volevano conoscerci. Sai, devi sempre dimostrare alle persone il tuo valore. Nessuno pensa mai che siamo bravi, finché non ci vedono su un palco.
Scommetto che ti piacerebbe aprire anche i Queens of the Stone Age un giorno.
Oh sì, anche se li ho incontrati un paio di volte e non penso di piacere a Joshua. Meglio lasciare perdere.
Ora questa la devi raccontare.
Diciamo che è una persona molto difficile da inquadrare.
Va bene, non insisto. Tornando all’album, In The Night è probabilmente la canzone più personale dell’album, immagino non sia stato semplice per te farla.
È stata molto difficile da scrivere, mi ci è voluto molto tempo. La suono la metà delle volte in questo tour, perché a volte capisco di non essere pronto per farla. È impegnativa, perché è difficile da cantare e da suonare in una band di soli tre elementi. E poi devo essere nel giusto stato d’animo per farla e poter esprimere correttamente il messaggio della canzone nel modo in cui lo merita davvero.
Ultima domanda: che artisti emergenti vorresti consigliare ai nostri lettori?
Consiglio di dare un ascolto ai Jigsaw Youth che sono fottutamente bravi, così come i Velveteers e i Nobro.
