Danza, sentimento e grandi classici in cuffia. Ascoltando Glutton for Punishment e guardando i videoclip dei primi tre singoli estratti, non assoceresti mai questi tre elementi alla musica di Jojo Orme. Per le canzoni della nuova scommessa uscita dalla “cucina” di Dan Carey, la Speedy Wundergorund, è necessario andare oltre la superficie. Anche perché il progetto Heartworms, dal primo EP A Comforting Notion (2023), ha continuato la propria evoluzione. Per chi non la conoscesse, tutto è iniziato tre anni fa: un’autrice misteriosa, con un suono molto più elettronico che post-punk, perlopiù strumentale, appassionata di aeroplani di guerra. Oggi, con il suo primo album, la ritroviamo molto più sicura di sé e della sua voce.
I testi, i suoni che ondeggiano tra aperture orchestrali, synth e chitarra elettrica, sono la cornice di un concept ben preciso. Un’analisi personale e universale: a partire dall’esperienza personale, in particolare il rapporto fatto di amore e contrasti con sua madre, si balla sulle emozioni, anche in modo tragico, ma senza mai abbandonarsi a un tono melodrammatico. Il bianco e nero dell’iconografia e dei video di Heartworms – girati e scritti con Gilbert Trejo, figlio di Danny (sì, quello di Machete) – scompaiono quando si chiacchiera con lei. Circondata da chitarre e abiti di scena, Jojo spiega il suo cruccio con un entusiasmo coinvolgente: costruire qualcosa di unico, provando e facendo sentire a chi ascolta emozioni nuove. «L’arte e il fare musica sono una punizione e io ne sono dipendente» spiega.
Per scrivere Glutton for Punishment e soddisfare la propria “golosità” di emozioni e storie, Jojo ha smesso di ascoltare musica nuova – per evitare di esserne influenzata – e si è rifugiata nelle sue canzoni preferite, nei libri di poesia e nei documentari. Il risultato è un disco conciso e pensato, con picchi sorprendenti come Smugglers Adventure, e sì, a dispetto del bianco e nero, stracolmo di tante sfumature colorate.

Ascoltando l’album, fin da subito e dalla prima traccia Just Ask to Dance, ho notato che il suono era molto più ampio e corposo. Per esempio, c’è subito l’orchestra. Che tipo di lavoro hai fatto a livello di scrittura e produzione?
Proprio perché era il mio primo album, ho avuto molto più spazio e libertà per provare cose diverse. Nell’ultimo periodo sono cresciuta molto nello scrivere canzoni. Non posso dire di conoscere totalmente il mestiere, ma di certo c’è stata un’evoluzione in tutti gli aspetti, dal modo in cui suono la chitarra fino all’uso della mia voce. Rispetto all’EP (A Comforting Notion, ndr) mi sono resa conto di essere migliorata molto nel canto e quindi mi sono concentrata tantissimo su questo aspetto. La gente pensa che quando inizi a cantare sai davvero cosa stai facendo, ma in realtà finisci per migliorare e imparare, come per il ballo, stando sul palco.
Nel disco ci sono appena nove brani, di cui un’intro strumentale. Una scelta in controtendenza, come mai?
Non volevo ingozzare la gente di canzoni, tanto per far vedere quanto avessi scritto. Ho scelto la tracklist con molta cura e mi sono assicurata che funzionassero bene e che fossero concise, in modo tale da potermi mostrare al pubblico in modo chiaro: “Ehi, sono Heartworms e questo è quello che sono”. Poi è anche vero che i brani sono molto diversi tra loro, ma questo perché non mi piace fare sempre la stessa cosa.

Uno dei temi centrali del disco, a partire dal titolo, è la punizione. Nel tuo caso però è vista in modo liberatorio, quasi come una necessità e un desiderio.
Ci sono così tanti tipi di punizione. C’è la punizione che ti dà qualcuno, quella che ti autoinfliggi e quella che arriva insieme alle conseguenze delle tue scelte. Per esempio, mi ha sempre affascinato lo stress post-traumatico di chi torna dalla guerra: può essere vista come un tipo di punizione inevitabile, per qualcosa sulla quale non avevano scelta. Mi ritrovo spesso a pensare soprattutto alle punizioni quotidiane che in qualche modo scegliamo di subire, quasi ne fossimo dipendenti. Da qui la golosità del titolo. Nel mio caso la punizione mi spinge a fare arte. La stessa musica è una forma di punizione. Ti punisci perché ti piace la sfida e ti piace quella spinta creatrice.
Quanto i testi di questi nuovi brani attingono dalla tua esperienza personale?
Solo in parte. Molto è derivato dal rapporto e dall’educazione ricevuta da mia madre. Quando ero bambina mi raccontava spesso del suo passato ed era come se io fossi obbligata a rivivere quello stesso dolore che aveva passato lei. Mi è stato insegnato a provare una sorta di empatia “forzata” nei confronti delle emozioni degli altri: ogni volta che ascoltavo questi racconti dovevo “sentirli”, altrimenti venivo rimproverata. Da lì è iniziata la mia curiosità, volevo conoscere le storie degli altri per provare le loro emozioni e capire come ci si sentisse dall’altra parte. Quando ero adolescente ero proprio ossessionata dalle persone perché non sapevo cosa volesse dire essere amati. Mia madre non è mai stata capace di mostrarmi affetto quando ero piccola, per cui l’unica cosa che sapevo fare era aggrapparmi alle cose in maniera ossessiva. Just Ask to Dance parla proprio di questo, di quando si scambia l’ossessione per amore. Questo mio desiderio di raccontare storie dalle quali preferiremmo nasconderci mi ispira, infatti le cerco leggendo libri e guardando molti documentari.
C’è una canzone dove parli di tua madre?
Sì, è Smugglers Adventure. Il titolo non c’entra nulla, era semplicemente il nome con cui avevo chiamato la nota vocale quando ho scritto il brano. È rimasto perché credo si adatti al mood e al tema della canzone. Quando ero piccola era come se mia madre non mi conoscesse a fondo, ma solo attraverso le mie reazioni esterne. Non aveva idea di cosa mi passasse per la testa. Sai, un conto è conoscere l’anima di qualcuno, un altro è conoscerlo e basta. Poi lei aveva questa cosa della competizione. Le piaceva andare in bicicletta davanti a me e non mi permetteva di pedalare al suo fianco. La sua voglia di competere la trasmetteva anche a me e mio fratello. A giorni alterni, preferiva l’uno piuttosto che l’altro. Ma io amo mia madre e questa canzone parla del fatto che le voglio bene così com’è. Non si possono cambiare le persone, è una perdita di tempo. Ho impiegato del tempo per accettare questa cosa e per imparare a perdonare. Il perdono è una delle cose più belle che una persona possa donare. Smugglers Adventure racconta tutto ciò che provo nei suoi confronti e ciò che immagino lei provi nei miei.

La tua adolescenza fuori dagli standard sembra rispecchiarsi nel tuo stile musicale. Secondo te essere fuori dalle mode musicali, è più un pregio o un rischio?
Anche questo fa parte del mio modo di interpretare l’essere cantautrice. Per questo album e in generale quando scrivo, non mi piace ascoltare nuova musica come facevo un tempo. Non mi interessa quanto sia bella. Ora che per me è diventato un lavoro è come se non volessi essere influenzata in alcun modo. Non voglio che, inconsciamente, sia spinta a inserire o fare certe cose che mi sono magari piaciute e rimaste impresse sentendo altre canzoni. Se il disco suona in un certo modo è perché le uniche cose che ascoltavo erano vecchi brani ai quali sono affezionata e che sono una comfort zone. Con la poesia invece è diverso, non mi dispiace leggerla e rimanerne influenzata perché sono dell’idea che va sfruttata anche al di fuori del campo letterario.
È molto interessante anche il modo in cui hai utilizzato la chitarra. Mi vengono in mente i crescendo di Celebrate o Jacked dove diventa protagonista. È istinto o ragionamento?
Oh è puro istinto. La maggior parte del tempo non so minimamente come la canzone evolverà. Mi lascio trasportare dalla melodia. Con la chitarra tendo a non suonare quasi mai degli accordi, ma a inserire dei fraseggi che poi prolungo e rendo sempre più prominenti. Nel caso di Celebrate è successa la stessa cosa anche con la voce. Ci ho messo molto a trovare le parole e il tono giusto con cui cantarle. Rispetto alla prima versione, il brano che ascolti nel disco è cambiato molto. È proprio il canto l’aspetto che di solito mi richiede più tempo. Per esempio, trovare la struttura ideale per Smugglers Adventure, è stato complicato. Ma, al di là di questo esempio specifico, nel complesso, è sempre l’istinto a guidarmi.

Una cosa sicuramente pensata è il finale del disco, Glutton fon Punishment, che si ricollega a Just to Ask for a Dance: la danza è una metafora di salvezza.
Amo il simbolismo e i significati nascosti. Ballare per me è sinonimo di libertà. Mi è sempre piaciuto danzare e farlo senza regole. Mi capita spesso di incontrare persone che non lo fanno per vergogna. E invece tutti dovrebbero imparare a lasciarsi andare, senza pensare al modo in cui appaiono. Questo vale per tutte le cose: non bisogna avere paura di essere se stessi e tantomeno accettare di essere ciò che gli altri vogliono che tu sia. Bisogna smetterla di limitarsi e confinarsi. Per esempio, durante i lavori sul disco, qualcuno mi disse che avrei dovuto mettere la mia faccia in copertina. Io ovviamente ho fatto l’esatto contrario e ho messo il mio logo. So che questa è una stupidaggine, ma a volte è necessario uscire dal seminato. È necessario sentirsi a disagio per creare qualcosa di grande. Ballare a volte è scomodo e imbarazzante, soprattutto quando tutti di guardano, ma una volta superato l’imbarazzo sei totalmente libero.
Prima hai parlato di libertà anche in studio, immagino sia dovuto dal fatto che sei inserita in un contesto particolare come quello di Speedy Wunderground.
Sì, molto dipende da Dan (Carey, ndr). Lui è la Speedy, è lui che rende le cose magiche. Lavorare al suo fianco è sempre rilassante e stimolante allo stesso tempo. È difficile trovare le parole giuste per descriverlo. Lui è fondamentalmente una famiglia per me, eravamo amici prima che registrassi nel suo studio. Andavamo ai concerti insieme e ci buttavamo nel moshpit, andavo a cena con la sua famiglia. Se sento che quando siamo insieme non c’è limite alla creatività è proprio perché tra noi c’è questo rapporto tra pari. Siamo aperti l'uno con l'altro e ci ispiriamo a vicenda. Sono davvero grata che mia abbia voluto nell'etichetta. È un genio.
Gilbert Trejo ha diretto i tre videoclip di questo album. Come è nata la vostra collaborazione?
Ci siamo conosciuti su Instagram. Lui ha ricondiviso nelle sue storie il videoclip di Retributions of an Awful Life e io gli ho scritto per ringraziarlo. All’inizio però non avevo la più pallida idea di chi fosse. E non l’ho ricollegato neppure quando, scorrendo il suo profilo, ho visto una foto con suo padre. Mi ricordo di aver pensato: “Caspita, suo papà somiglia moltissimo a Danny Trejo”. Poi ho scoperto che in realtà era proprio lui. È stato Gilbert a propormi di collaborare ed è stato molto aperto nei confronti delle mie idee, come il monologo all’inizio del videoclip di Jacked.
Chiudo con il verso più forte dell’intero disco: “I don't wish murder because I got no right”. È un riassunto dei tempi presenti.
Sono d’accordo. Questo vale anche sui social, per esempio. Tutti pensano di avere il diritto di dire qualsiasi cosa, anche le più stupide e malvagie, scambiando tutto ciò con la libertà di parola. Sempre più spesso si supera il limite. Quel verso urlato è un modo per gridare la mia verità.
