07 aprile 2022

Il mostro buono dentro ognuno di noi, intervista a Generic Animal

È rock, è post-rock, è underground, ma si muove anche nel pop. Tutto questo è Luca, più noto con il nome di Generic Animal, cantautore della provincia di Varese, che adesso vive stabilmente a Milano. Ci abbiamo fatto quattro chiacchiere in tranquillità, per telefono, per parlare del suo nuovo album, il quarto. Si chiama Benevolent e il percorso di questo lavoro vuole rappresentare la buona disposizione d'animo in un periodo in cui, tra guerre e pandemia globale, si ricerca un angolo spensierato, non per forza felice, ma sicuramente più rilassante rispetto al caos del contemporaneo. Luca ci riesce benissimo, soprattutto in situazioni descritte nei pezzi come Riverchild e Paura di, probabilmente i più riusciti dell'intera nuova fatica discografica.
Però, si sa, come tutti i bei termini, anche "benevolenza" può avere molte accezioni ed è proprio da questa domanda, molto personale e intima, che abbiamo iniziato la nostra intervista all'animale generico che sta diventando sempre più specifico.

Ma quindi, per te, cos’è la benevolenza?

Secondo me la benevolenza è quel termine un po’ serio per descrivere il voler bene, l'essere indulgenti nelle situazioni che ci paiono apparentemente disagevoli e difficili.

Parliamo della copertina dell’album. Sembra essere ossimorica: chi hai voluto rappresentare e come ti è venuto in mente?

Quello che volevo rappresentare era un mostro buono, una sorta di maschera. Una patina che ricopre tutte le canzoni del disco. C’è un po’ di dramma epico, alcuni concetti sono criptici ma vogliono, allo stesso tempo, descrivere situazioni semplici. Così è la copertina, che rappresenta un Kappa, una creatura mitologica giapponese ridotta all’osso, un po’ un pupazzo. Un mostro… generico di una tradizione non nostra.
Può arrivare a tutti: a chi approfondisce il personaggio specifico e a chi si adatta e gli dà uno sguardo soltanto di sfuggita. 

Hai composto l'album tra il 2019 e il 2020: quanto ha influito la “prima” pandemia nella stesura dell’intero lavoro?

Ha influito relativamente. Sicuramente in maniera “positiva”, nel disastro, perché ho avuto più tempo per raccogliermi e raccogliere le idee e lavorare di più sulla parte di ricerca ed intenzione del suono del disco. Mi ha permesso di fare un po’ di riflessioni su pezzi come Riverchild, Aspetta, Clermont… scritte tutte un po’ in coda e che sentivo mancavano.
L’idea è: momento catastrofico, canzoni catastrofiche.

Rispetto a Presto, che abbiamo recepito come album più viscerale, Benevolent ci è parso più introverso: come definiresti il processo creativo dietro quest'ultimo lavoro?

È legato al momento puramente storico e iper-realistico che sto vivendo rispetto alla mia vita. Nel momento in cui avevo bisogno di essere viscerale perché serviva che tutti sapessero come funzionavano le mie cose nel progetto è uscito Presto. Di conseguenza, invece, quando ci siamo tutti chiusi nei nostri problemi, anche più grossi di noi, Benevolent è stato il risultato. Molto veritiero, anche nel modo in cui è stato prodotto. Mi sono totalmente dedicato a me stesso, avete ascoltato cose che mi piacciono, mi fanno stare bene e non per forza ciò che volevano “gli altri”. Però non lo dico in maniera spocchiosa, è soltanto quello che mi sentivo di fare al 100% in questi due anni di sviluppo e credo abbia ripagato molto.
Forse è la prima volta che non soffro per l’uscita di un mio disco, perché a livello emotivo l’ho più vissuta come una bella liberazione…

Quindi le altre volte sono state uscite più travagliate?

Sai, è come se non avessi vissuto bene quei momenti. Il primo disco è tale, il secondo un po’ un passo gobbo con le persone sbagliate al momento sbagliato, forse troppo vicino al primo e quindi ero in tour e non ci ho ben riflettuto. Con il terzo c’è stata la pandemia, quindi lavoro immenso, ma un ritorno molto malinconico. Benevolent, invece, è la possibilità di andare avanti, sia dal punto di vista intellettuale, di suono che nel quotidiano.

Cos’è cambiato dal Luca del 2018 che pubblicava il suo primo album?

Tantissime cose. Mi sembra un’infinità fa, forse anche dovuto agli stop and go di questo mondo di adesso. La fiducia nelle persone che ripongo affianco a me è mutata, nel modo in cui lavoro alle mie cose, l’idea che ho di me stesso e in che modo collaboro con gli altri… questa è bella contorta!
In altre parole, è cambiato il modo in cui affido la mia musica ad altri, sia a livello estetico, sia dai pareri di altri. Ho cominciato davvero da solo, un po’ per caso, con solo due persone forti al mio fianco e adesso sento che c’è ancora quel grande per caso intorno a me, una variabile costante di casualità, con la quale convivo e va bene così, ma c’è anche al contempo tanta volontà del voler continuare a far questo sempre di più, perché ho l’urgenza di farlo.

Com’è nata l’idea per il video di Piccolo?

È stata una piccola “bombetta” nata dall’idea di Maria Vittoria che ha seguito tutta la parte grafica. Inizialmente volevamo fare un video con una marionetta, ma non ci convinceva più di tanto e siccome avevamo lavorato già con lo stop motion (era uno show in Triennale in cui Maria Vittoria aveva fatto una performance in diretta proiettata) le ho proposto di fare la stessa cosa ma con dei soggetti differenti. Così mi ha mandato delle clip con dei personaggi creati dal nostro immaginario comune, queste creature che si danno fastidio l’un l’altro cercando comunque di mantenere l’equilibrio della casa; che è un po’ come il disco.

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Hai registrato l’album al Bleach Recording Studio: era la prima volta che ci andavi? Com’è stato?

Avevo un’aspettativa molto alta e volevo andarci da tantissimo. Enrico dei Tre Allegri, i Fine Before You Came, il mio fonico che lavora lì… è stato proprio grazie a lui, Meme Gerace, che mi consigliava di andare.
Negli anni scorsi era da poco che vivevo a Milano, poi ho scoperto che la comodità, se vuoi concentrarti, sia proprio nell’uscire dalla città. È stato molto spirituale, liberatorio stare in un posto “vero”, nel verde, vicino al lago. Con i tuoi amici, durante le zone rosse e la pandemia era di certo una fuga sicura.
Il posto è molto bello, pieno di piccole grandi risorse e ormai la considero una sorta di sicurezza per quello che faccio, sia per le prove che per la realizzazione di dischi (sia miei che di altri).

Ho apprezzato molto Riverchild, si avvicina a molti miei ascolti personali: com’è nata e in che modo è stata suonata e composta?

Il demo originale è fatta interamente dai dei MIDI con batterie finte, clavicembali e un koto (uno strumento tipico giapponese). È stato suonato interamente al computer durante aprile 2020 ed era una delle prime volte che approcciavo la scrittura MIDI con dei beat e riff ben chiari in testa. Non sapevo con che strumento farlo e allora mi sono scaricato dei plug-in gratuiti e mi sono messo a comporre. Il pezzo originale, quindi, è quello che si sente ma tutto in versione computerizzata. Quando poi io e Carlo (Fight Pausa) ci siamo decisi a volerlo registrare, abbiamo semplicemente raffinato il tutto: dagli ambienti alle chitarre e la produzione stessa del suono con distorsione e oscillamenti realizzati con la batteria di Giacomo Ferrari. Quindi, abbiamo ri-registrato i rullanti separati dalle casse e così via, isolando ogni singolo suono. Un procedimento simile a quello che si fa su computer ma analogicamente e dal vivo.
Forse se lo legge uno serio pensa che sia un imbranato... ma è la verità!

Una traccia si chiama Incubo un’altra Paura di e allora ti chiedo: ricordi un incubo in particolare che hai fatto e se sì è correlato a qualche paura in particolare?

Quando ero piccolo soffrivo tantissimo di otite e avevo quest’incubo ricorrente che tornava ogni qual volta avessi mal d’orecchi. Sognavo sempre un monster truck che scende da una discesa di un garage e schiaccia lentamente un filo di metallo. Effettivamente non ne conosco ancora oggi il significato, non so nemmeno se sia in incubo, ma era un pensiero associato ad un dolore.
Poi non voglio far diventare quest’intervista una seduta di psicanalisi… sennò dovrei pagarti pure!