Segnatevi il nome, perché sentirete parlare a lungo dei Been Stellar. La band viene direttamente da New York, una città che è la lontana parente di quella che nei primi 2000 aveva visto l'ascesa di artisti culto come Strokes e Interpol. I tempi sono decisamente cambiati e Sam Slocum (voce), Skyler Knapp (chitarra), Nando Dale (chitarra), Nico Brunstein (basso) e Laila Wayans (batteria) sono riusciti a emergere ugualmente e non hanno intenzione di fermarsi. "Abbiamo deciso di tenere la testa bassa e concentrarci sulla nostra musica, senza preoccuparci di quello che stava succedendo intorno a noi" ci dice serio Sam. I risultati alla fine sono arrivati: un contratto con la Dirty Hit e tour in supporto a 1975, Fontaines D.C. e Shame. Il tutto per arrivare a Scream for New York, NY, il loro album d'esordio, prodotto da niente meno che Dan Carey: un disco viscerale, crudo e sincero. Dentro c'è l'anima di 5 ragazzi che vogliono lasciare il segno, fregandosene di tutto il resto. Li abbiamo incontrati poco prima del loro concerto in apertura ai 1975 al Forum di Milano (qui trovate il live report). Ecco cosa ci hanno raccontato.

Prima volta in Italia e suonate direttamente al Forum di Milano: mica male!
Nando Dale: Sì! Quella europea è stata decisamente una parte interessante di questo tour. Stiamo suonando in un sacco di città dove non avremmo mai immaginato di suonare e facciamo gli stadi... cioè volevo dire le arene. Tutto questo per noi è pazzesco!
Sam Slocum: Ma aspetta... che differenza c’è fra stadi ed arene?
Nando: Penso che qui per stadi si intendano quelli di calcio, mentre le arene sono al chiuso e sono più piccole.
Esatto, ma comunque questo non toglie nulla a quello che state riuscendo a fare in questo tour. Gli ultimi mesi saranno stati delle montagne russe: avete firmato il contratto con la Dirty Hit, poi il tour con i 1975; in pochi mesi la vostra vita è stata stravolta. Come state affrontando tutto questo?
Laila Wayans: Dall’esterno può sembrare che sia successo tutto in fretta, ma come band siamo insieme da ormai 6-7 anni e quindi abbiamo avuto il tempo di fare la nostra bella gavetta. Comunque sì, è tutto molto folle, ci sono stati diversi momenti durante questo tour che abbiamo vissuto come la perfetta chiusura di un cerchio. Un paio di anni fa iniziavamo il college insieme ed ora eccoci che giriamo il mondo, suonando in posti dove non eravamo mai stati prima. È assurdo!
Com’è stato suonare per la prima volta in un’arena?
Nando: È stato interessante, perché la venue a Lisbona era un’arena da corrida. È stata una sensazione travolgente: non avevamo mai fatto delle date così grandi prima di questo tour e quindi non sapevamo nemmeno come muoverci dietro le quinte, capire dove fossero i nostri camerini o sapere a chi rivolgerci, considerato che eravamo pure in un Paese straniero.
Laila: È stato un po’ come il primo giorno di scuola! (ride, ndr) Sai, con lo zainetto in spalla e pieni di domande tipo: “dove dobbiamo andare ora?”. È stato molto carino!
Venite da New York, dove la scena musicale non è più quella dei primi 2000 e molti locali storici hanno dovuto chiudere. Quanto è stato difficile emergere in una situazione del genere?
Sam: Siamo cresciuti ascoltando gli Strokes e gli Interpol e leggendo libri come Please Kill Me e Meet Me in the Bathroom. Ci siamo fatti questa idea cool di New York e persino negli anni successivi, a metà anni ‘10, pensavamo a quanto sarebbe stato figo trasferirsi lì. Ci siamo conosciuti tutti al primo anno di college e la settimana dopo che ci siamo trasferiti ha chiuso il Silent Barn, un locale storico, nonché punto di riferimento DIY della scena. Ha chiuso anche il The Glove, un altro posto locale figo e molto particolare, dove alla fine non abbiamo mai suonato. In generale, con tutti i locali che stavano chiudendo, c’era la sensazione che qualcosa di grande stava finendo per sempre. Eravamo convinti di aver avuto un tempismo pessimo. C’era una piccola scena alternative rock, ma non era niente di che. Come primo impatto tutta questa situazione è stata parecchio sconcertante per noi. Alla fine c’è voluto qualche anno, ma ce l’abbiamo fatta. Soprattutto durante la pandemia, che in qualche modo ha accelerato tutto, abbiamo deciso di tenere la testa bassa e concentrarci sulla nostra musica, senza preoccuparci di quello che stava succedendo intorno a noi. In questo modo siamo riusciti a trovare noi stessi e la nostra musica, il nostro sound, la nostra voce. Non preoccuparsi di quello che succede è la cosa migliore che si possa fare: in situazioni del genere, uno si crea il proprio spazio. La scena alt rock di New York è morta, ma noi ce l’abbiamo fatta lo stesso.

Vi infastidisce sentirvi paragonati a ripetizione con gli Strokes, gli Interpol e in generale tutte le band newyorkesi?
Nando: Non ci badiamo più.
Sam: Alla fine è quello che ti becchi per essere una band che viene da New York. È inevitabile. E comunque sono paragoni lusinghieri: penso che il 95% delle band che oggi hanno successo siano state ispirate dagli Strokes. È facile cercare di andare sulla difensiva e dire “non siamo come loro!”, ma questo succede proprio perché stai cercando di essere qualcosa di nuovo, di tuo. Una volta che diventi chi vuoi diventare, senza provare a essere i nuovi Strokes, allora quei paragoni smettono di avere importanza. Non c’è più bisogno di mettersi sulla difensiva, perché l’argomento non ti interessa più. Comunque ci sta, come paragone: siamo una band di 5 persone di New York e facciamo musica con le chitarre elettriche. E quindi la gente inevitabilmente connette i puntini nella propria testa e fa questi commenti. Per alcuni è più semplice definire così la nostra musica. Se vogliono pensarla così, liberi di farlo: a noi non importa.
Fra l’altro, a proposito degli Interpol, avete pure aperto un loro concerto.
Nando: Purtroppo Paul (Banks, ndr) era malato e non ci abbiamo parlato. Ma quello è stato sicuramente uno di quei momenti da chiusura del cerchio di cui parlava prima Laila.
È vero che quando avete fondato le band, siete partiti proprio coverizzando alcune loro canzoni, come Obstacle 1?
Laila: Sì, tutto vero!
Nando: Laila spaccava tantissimo quando la suonava.
Laila: La parte di batteria di quella canzone è incredibile, probabilmente una delle migliori di tutti i tempi. Complimenti agli Interpol!
Adesso sono curioso: cosa c'era nella vostra primissima setlist di cover?
Laila: No no, ne facevamo solo due di cover! (ride, ndr)
Sam: Sì, quella e Hard to Explain degli Strokes.
Nando: … e ai primi tempi suonavamo anche un piccolo teasing di Only Shallow dei My Bloody Valentine.
Tutte influenze che direttamente o indirettamente sono finite dentro a Scream from New York, NY, il vostro primo album. Rispetto all'EP precedente è sicuramente più spostato verso il post punk che non lo shoegaze. Qual è il brano più vecchio che avete inserito nel disco?
Sam: Penso sia Scream, che abbiamo suonato per la prima volta in tour nell’estate del 2021.
Laila: ... anche se in realtà l’avevamo scritto durante la pandemia.
Sam: Vero. La cosa assurda è che per poco rimaneva fuori dall’album. Non mi ricordo più come o perché, ma a una certa avevamo girato la demo a Dan (Carey, ndr) assieme ad altre idee di cui non eravamo del tutto convinti e lui ci ci fa “ma ragazzi, perchè l’avete scartato?!” e noi allora gli abbiamo detto che era una vecchia idea, che non ci convinceva del tutto, e lui: “no, dobbiamo lavorarci su!”. Alla fine è diventato il fulcro del disco, il pezzo che poi dà anche il nome all’album.
Laila: Le nostre influenze musicali sono molto lontane fra loro, siamo cresciuti tutti in posti diversi con background differenti. Le tue influenze finiscono per diventare parte del tuo DNA, e quindi poi ti escono fuori naturalmente, senza pensarci.

Com’è stato lavorare con Dan Carey, uno dei produttori più importanti di tutta la scena alternative e post punk a livello mondiale?
Sam: Ovviamente Dan era qualcuno che ammiravamo da un bel po’: le band che ha prodotto ci hanno sempre gasato ed è stato un sogno poterci lavorare assieme. Non mi ricordo esattamente come abbiamo avuto il suo contatto, ma sarà stato tramite la Dirty Hit. L’anno scorso siamo andati al SXSW (South by Southwest, ndr) in Texas e Dan era lì per un paio di band. Noi dovevamo incontrarlo per registrare in presa diretta un pezzo in giornata, ma penso che già allora ci fosse una sorta di tacito accordo per vedere come avremmo lavorato insieme. Abbiamo fatto una prima versione di Passing Judgement con lui ed è stata veramente un’esperienza fantastica: ha un modo di lavorare molto specifico ed eccentrico. Sa farti tirare fuori il meglio dalla tua performance e sa davvero mettersi sullo stesso livello delle band con cui lavora. È una delle persone più incredibili con cui abbiamo mai lavorato. Quello stesso giorno, durante una pausa nello studio, gli abbiamo chiesto se gli andava di produrci tutto l’album e lui ha accettato. È venuto a New York alla fine dell’estate, quindi abbiamo avuto ancora qualche mese per scrivere. Lui di solito registra nel suo studio a Londra, ma per noi era importante registrare l’album a New York. Così per due settimane ci siamo chiusi in studio a Brooklyn ed è stato irreale: abbiamo lavorato sodo ed è filato tutto liscio come l’olio.
Laila: Lui ci stava di fianco mentre registravamo: è una cosa abbastanza interessante e inusuale. Di solito la separazione fra produttore e band è più marcata, ma lui è diventato letteralmente parte della band, soprattutto nelle due settimane in cui era sempre con noi, tutto il tempo. Continuavamo a guardarci negli occhi e pensare "oh mio Dio, è tutto vero!”.
A proposito di Passing Judgement, è un brano che riflette sull’insicurezza che si cela nelle persone che dispensano giudizi a destra e manca. Sam, c’è stato un evento o qualcuno in particolare che ti ha ispirato?
Sam: Non è stata un’esperienza specifica ad avermi influenzato, ma una serie di cose, fra cui la disinformazione che girava durante il Covid. Più gente conosci e più ti rendi conto che hanno tutti background diversi ed esperienze di vita totalmente differenti dalla tua. Penso che se qualcuno tende a giudicare spesso gli altri di solito è perché non ha abbastanza autostima, non si sente davvero a suo agio. Diciamo che il testo è nato da un discorso introspettivo fatto tra me e me sul mondo esterno.

So che ognuno di voi ha contribuito alla creazione della copertina dell’album, che ha delle vibe anni ‘90, un po’ alla Ok Computer dei Radiohead.
Sam: In realtà non abbiamo pensato ai Radiohead, anche se capisco il motivo per cui le persone facciano quel collegamento. Ne abbiamo anche parlato fra noi, ma non era una cosa voluta. L’abbiamo tenuta perché era veramente molto bella. Abbiamo voluto sperimentare con molti video, perché l’artwork finale in realtà è lo screenshot di un video che è stato trasmesso su un vecchio televisore e poi fotografato, e poi abbiamo continuato a modificare quella foto. Il nostro obiettivo era fare avvertire la presenza della città, senza voler iper-romanticizzare New York. Amo il risultato finale, un po’ psichedelico, perché l’album ha un’atmosfera sognante. Mi piace il fatto che hai la città radicata lì in basso e poi man mano che sali l'immagine svanisce nel bianco.
Nando: È molto dinamica: nonostante sia una copertina, è quasi una post-foto. Cattura l’essenza del disco, le cose di cui parliamo nei testi: domande la cui risposta vale solo per un attimo.
Ultima domanda: è vero che per firmare il contratto con la Dirty Hit avete dovuto esibirvi dopo una serata alcolica?
Laila: Non è che dovessimo, ma l’abbiamo fatto! (ridono, ndr)
Sam: È successo davvero! Eravamo fuori con Jamie (Oborne, co-fondatore della Dirty Hit, ndr) e stavamo bevendo insieme. A una certa abbiamo avuto questa grande idea di invitarlo lì su due piedi a vederci suonare nel seminterrato dove provavamo. Nonostante l’alcol, direi che abbiamo fatto un buon lavoro!
