10 settembre 2018

Sentirsi a casa con i White Lies e gli alt-J: le nostre interviste all’Home Festival

All’orizzonte del primo decennio, l’Home Festival non presenta segni di cedimento ma un illimitato coraggio nel mettersi in gioco con intraprendenza, sfidando i colossi del territorio nazionale per sottrarre a loro il primato di miglior festival italiano. Diversamente dalle altre realtà del Bel Paese, l’ex dogana di Treviso espleta il termine in cui si identifica dimostrandosi padrona accogliente in un ampio campo che appare piccolo per la sua percorribilità serena tra bancarelle di prodotti equo solidali e ampi punti di ristoro capaci di sfamare anche i palati più raffinati, momenti di svago che si aggiungono ai divertentissimi mini luna park e skate area, attività extra per chi non riesce ad ascoltare la bella musica da fermo. I trend del momento sono qui, sui palchi dall’estetica eccentrica, accanto ai grandi nomi che hanno fatto la storia e a quelle piccole star internazionali che non verrebbero mai chiamate per un concerto intimo in un club milanese; non si prospettano sbuffi tra i cambi palco, la timetable è ben ragionata. Questa idea di esperienza è stata così allettante che lo staff di NoisyRoad si è avventurato il 30 agosto tra strade transennate, navette in ritardo e parcheggi stracolmi senza perdere la pazienza perché il solo pensiero di passare una serata indimenticabile lo riempiva di entusiasmo. Tanta era l’adrenalina in corpo: era di poche ore la conferma della nostra richiesta di intervista ai protagonisti della serata, il trio new-wave White Lies e i mitici maghi dell’indie alt-J.

White Lies

Fotografia di Davide Carrer.

Forti di una lunga gavetta, disprezzati dalle webzine per la loro troppa fedeltà agli oscuri Joy Division e Echo & The Bunnymen, condannati per la loro giovinezza rispetto ai simili Editors, i White Lies respingono ogni bastone tra le ruote con la grazia della voce baritonale di Harry McVeigh, proponendo dolci storie d’amore su uno sfondo gotico tipico del post-punk rinvigorito dal suono forte e chiaro delle chitarre, elementi moderni che si mescolano con un nostalgico sintetizzatore, sempre più imponente negli ultimi due album, il concept album per ora insuperabile BIG TV (Polydor, 2013) e il figlio prediletto degli anni Ottanta Friends (BMG, 2016): se il primo li ha salvati da una direzione che li stava relegando in compartimenti stagni, il secondo li ha irrobustiti, solidificandoli in una tradizione classica senza lo spauracchio della ripetitività, ciò che terrorizza -o elettrizza- qualsiasi critico pronto a gridare alla fine della carriera della band. Questi artisti maledetti non hanno esaurito le proprie munizioni: è stata come un fulmine a ciel sereno la notizia della registrazione del nuovo album, la cui uscita è prevista per l’inizio del prossimo anno. Il brano Believe It, presente nella scaletta trevisana ma già proposto nei live dei mesi scorsi, anticipa un disco carico di accordi robusti, synth dosati, ritornelli emozionanti di facile presa mnemonica, l’ennesima trovata trascinante né insipida né scotta tipica di un gruppo immerso nel passato senza apparire scontato, una band salda nelle sue radici, consapevole di ciò, dunque non tediosa. Come si sposeranno le nuove tracce con i successi che hanno ammorbidito il cuore degli spettatori a fronte del palco principale, facendoli sospirare vinti dalla sehnsucht? Il nascituro sarà il fratello minore di Friends? La somiglianza è prevedibile così come gli esiti, indubbiamente originali. Quel che è uscito nella chiacchierata tra noi e le altre testate è l’impressione di un album mastodontico ed extraterrestre che potrebbe mostrare i denti con più tenacia del penultimo! Si tratterà di un lavoro autofinanziato e auto-prodotto, pensato con una maggiore libertà. Questa notizia esclusiva ha fatto da sfondo alle domande più specifiche di NoisyRoad nelle quali è stata esposta la nostra curiosità sul profilo artistico della band, sulle scelte da questa adottate negli ultimi cinque anni e sul rapporto di loro, tre amatori degli Eighties, con il trasognante Bryan Ferry, padrone dello studio in cui è stato inciso Friends.

NoisyRoad: «Siete una delle poche band che ripropone le stesse soluzioni senza apparire monotoni. Qual è il vostro segreto?»

Harry McVeigh: «Non lo so, abbiamo un gusto musicale che cambia molto. Ascoltiamo tantissima musica tutto il tempo e credo che, ogni volta che iniziamo a scrivere un album, il genere di musica che ascoltiamo e apprezziamo in quel periodo dia forma a tutto ciò che facciamo. Penso che ciò contribuisca molto al cambiamento tra gli album ogni volta che cominciamo a scriverli. Inoltre, spero che sia dovuto anche al fatto che stiamo migliorando nello scrivere canzoni di alta qualità, ci stiamo concentrando molto sulla scrittura, e credo che più scriviamo, più impariamo a farlo. Più tempo dedichiamo alla scrittura e alla registrazione dei brani, più alta ne sarà la qualità. Almeno, lo spero».

NoisyRoad: «Friends è il disco più elettronico dei White Lies. Ci spiegate il motivo di questa scelta?»

Charles Cave: «Ad essere sinceri, non penso sia una scelta. Ad esempio, quando io e Harry scriviamo delle canzoni prendendo in considerazione tutto il processo di scrittura, siamo abbastanza rilassati, seguiamo il nostro istinto, seguiamo ciò che ci sembra andare nella direzione giusta. Se lavorando ad una determinata canzone sentiamo il dovere di registrare soprattutto le chitarre, allora lo facciamo. Ma credo che quando stavamo scrivendo Friends non eravamo del tutto in quella mentalità. C’è da dire inoltre che l’elemento distintivo di Friends è che è il primo album in cui -mentre lo stavamo scrivendo e stavamo registrando le demo- abbiamo quasi spinto le demo in modo che fossero complete, abbiamo delineato le canzoni molto di più rispetto agli album precedenti. Con BIG TV, ad esempio, le demo erano solamente qualcosa come una traccia di tastiera e una di batteria, tutto qui. Con Friends ci siamo seduti davanti a un computer e ci siamo detti: “Oh, facciamo in modo che le nuove canzoni sembrino finite e cerchiamo di completare le demo il più possibile”! Credo che il modo più semplice per farlo, essendo la nostra prima volta, sia stato quello di inserire molti sintetizzatori perché sono molto facili da registrare a casa. Mentre stavamo scrivendo quest’album siamo probabilmente entrati più o meno nella stessa mentalità, ma abbiamo progettato ciò che avremmo fatto con le chitarre e con il sound generale molto di più di quanto avessimo fatto negli album precedenti, quindi credo che sia da qui che arrivi parte del cambiamento nel sound tra Friends e quest’album. Quest’album è più rock, di sicuro».

NoisyRoad: «Siete molto legati alla figura di Bryan Ferry. Avete mai pensato di fare un album più calmo sulla scia dei Roxy Music?»

Harry McVeigh: «Credo che si possa tranquillamente affermare che i Roxy Music siano un’ispirazione per molte band in Gran Bretagna. Sono stati una delle prime art rock band vere e proprie che provavano con la loro musica a fare molte cose strane, la maggior parte delle volte bellissime cose. Quindi sì, è giusto dire che sono una grande ispirazione per noi, insieme a tante altre cose. Mi piace molto il fatto che si siano spinti oltre i limiti e credo che sia qualcosa che ci piacerebbe esplorare. In realtà è probabilmente una cosa che esploriamo molto di più in questo album in uscita rispetto agli album passati. Ci sono un paio di momenti un po’ strani e meravigliosi. Quindi sì, siamo sicuramente dei fan di Bryan Ferry».

È risaputo che all’Home Festival i gruppi salutano e si congedano con due pezzi celebri; neanche i White Lies sono venuti meno alla consuetudine, ponendo i brani promozionali di Friends nel cuore della loro esibizione durata un’ora. Con furbizia, essi hanno sfoderato un’arma accattivante, Farewell to the Fairground, brano che contiene la celebre frase di Dorothy de Il meraviglioso mago di Oz, nonché motto del festival. Questa è la setlist della serata:

  1. To Lose My Life;
  2. Farewell to the Fairground;
  3. Take It Out on Me;
  4. There Goes Our Love Again;
  5. Morning in LA;
  6. Believe It;
  7. Is My Love Enough;
  8. Unfinished Business;
  9. Death;
  10. Hold Back Your Love;
  11. Big TV;
  12. Bigger Than Us.

 (alt-J)

Fotografia di Elisa Moro.

Altro giro, altro gruppo biasimato per la propria giovinezza e per il proprio stile, questa volta non pedissequo agli anni Ottanta ma tanto ricercato da essere incontrollabile dagli stessi compositori: è un peccato facilmente remissibile, quello dei  (alt-J), un gruppo di grandi potenzialità che -come il nome proprio del festival al quale abbiamo assistito- si identifica nel proprio simbolo polisemico, da loro adottato come sinonimo di variazione o differenza di un valore matematico finito. La matematica non è un’opinione, e nell’ultima fatica Relaxer (Infectious Music, 2017) si percepisce un intento sperimentale mai stanco. È una raccolta di brani che ricorda un libro degli esercizi in cui si troverà sempre una nuova equazione da risolvere, con la sua storia particolarissima, con la sua soluzione che dà un senso al principio; è dunque un insieme caratterizzato da versi scritti dopo la partitura, composti da parole che perdono il proprio significato per diventare dei contenitori musicali. Questa non è una novità per il trio formatosi a Leeds, già abile nell’interrompere all’improvviso racconti avvincenti e nell’abbellire l’inquietudine terrena opprimente con musiche antiche o esotiche; ogni tematica delicata viene da loro affrontata senza essere sciupata. Degli alt-J tutto è noto, come è certo che sin dalle loro origini essi hanno partecipato con animo all’inclusione del trip-hop nel macrogenere indie, e perciò abbiamo deciso di impostare la nostra breve ma intensa intervista su un punto a noi fermo e affascinante, l’orientalismo nelle loro canzoni, dando prima sfogo al nostro interesse su una questione mai dibattuta da Joe Newman e Gus Unger-Hamilton perché a loro estranea, il recente ritorno degli anni Ottanta tra i gruppi di matrice indie.

NoisyRoad: «La mia prima domanda riguarda la scena indie britannica. Sembra che ci sia un uso massiccio di musica elettronica, che pure voi utilizzate, in particolare i synth ma anche altri elementi simili. Penso ad alcune band emergenti, ad esempio i Blossoms, che sembrano essere fortemente influenzati dagli anni Ottanta. Cosa pensate di questo grande revival

Joe Newman: «Mmm, penso che in musica al momento ci stiamo spostando più verso l’inizio degli anni Novanta, ci sono state diverse band che hanno virato verso la musica dance. Penso che musicalmente parlando si stia utilizzando un synth come quello di Hans Zimmer in Rain Man, che è particolarmente figo. Adoro i Blossoms, credo che siano bravi. Penso che noi non siamo coinvolti in tutto ciò, siamo sempre stati un po’ ai margini di questa scena, è difficile per noi dare un giudizio».

NoisyRoad: «Pensate che ci sia una mancanza di creatività? Siccome varie band sono molto influenzate da questi anni, gli anni Ottanta e Novanta...magari è solo un mio pensiero, sembra che stiano copiando altre band e che ci sia proprio una mancanza di inventiva! Cosa ne pensate?»

Joe Newman: «Ogni generazione prende spunto da quella di prima, e quella di prima da quella antecedente ad essa, è inevitabile. Ci sono dei gruppi che hanno avuto successo scrivendo canzoni che suonano come se fossero di decenni fa, prima di loro, e tanti gruppi scrivono grandi canzoni che non suonano come se fossero di anni fa, creano nuove idee per la generazione a venire e queste vengono spesso copiate secondo me».

NoisyRoad: «Avete una canzone chiamata Nara, che è in Giappone; trovo che il vostro sound sia piuttosto mistico, mi ricorda l’Asia e l’Estremo Oriente. Avete un qualche tipo di legame particolare con l’Asia? L’Asia vi influenza?»

Gus Unger-Hamilton: «Abbiamo scritto un po’ di canzoni sull’Asia, ci sono molti rimandi al Giappone nel nostro ultimo album Relaxer. Anche se non sappiamo moltissimo riguardo l’Asia, ci siamo stati per concerti e altre cose, spesso tendiamo a mettere nelle canzoni ciò di cui leggiamo. Ad esempio, abbiamo letto di Nara, dove i cervi sono sacri -cosa molto interessante- e lo abbiamo messo nella canzone. Non è come se fossimo lì, a viaggiare attraverso l’Asia con lo zaino in spalla, facendo meditazione, non è così interessante come sembra! Siamo influenzati da cose provenienti da tutto il mondo, e anche dalla nostra immaginazione, si può dire che ci siano molti elementi riguardo l’Europa, la Francia, la Spagna, e forse anche l’Italia».

Per gli alt-J era la fine del tour nei festival di media portata. Dal loro ritorno sulle scene non ci sono state modifiche radicali all’interno della loro scaletta; notevole è l’attacco con la canzone meglio riuscita delle più innovative di Relaxer, caratterizzata da una sovrapposizione ben architettata di sample, elementi che riconducono all’aggettivo artsy spesso assegnato al gruppo nella sua accezione positiva. Probabilmente consci del fatto che stavano suonando in un festival straniero, Joe, Gus e Thom hanno riproposto il repertorio classico della band in un crescendo di spannung folk ed elettronica sfociata nell’ultimo istante della loro apparizione con la ballata dal ritmo sincopato Breezeblocks. Parevano delle statue marmoree in mezzo a delle colonne metalliche e luminose, ci cullavano con uno spirito d’altri tempi e ci facevano rizzare verso una dimensione in 8 bit: di quell’istante vissuto come una fiaba, oggi resta il tempo per fare una menzione particolare al grande lavoro delle tastiere, capaci di sopperire alla mancanza degli orchestranti che hanno partecipato alla registrazione di Relaxer. Questi sono i brani del loro set:

  1. Deadcrush;
  2. Fitzpleasure;
  3. Something Good;
  4. Nara;
  5. The Gospel of John Hurt;
  6. In Cold Blood;
  7.  (Ripe & Ruin);
  8. Tessellate;
  9. Every Other Freckle;
  10. Hunger of the Pine;
  11. Bloodflood;
  12. Matilda;
  13. Dissolve Me;
  14. Pleader;
  15. Taro;
  16. Left Hand Free;
  17. 3WW;
  18. Breezeblocks.

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Si ringraziano Gaia Bandiziol e Maria Vittoria Perin per la loro gentile collaborazione, Chiara Bustreo e Federica Di Gaetano per il loro caloroso sostegno.