Deleuze e Guattari, due tra i filosofi del Novecento che apprezzo di più, dicevano:
Scrivendo si dona sempre scrittura a coloro che non l'hanno, ma essi donano alla scrittura un divenire senza il quale essa non sarebbe, senza il quale sarebbe pura ridondanza. Il fatto che lo scrittore sia minoritario significa che la scrittura s'incontra sempre con una minoranza che non scrive, e non s'incarica di scrivere per questa minoranza. Quel che accade è al contrario un incontro dove ciascuno spinge l'altro, lo coinvolge nella propria linea di fuga, in una deterritorializzazione coniugata.
Indirettamente, Deleuze e Guattari, stavano parlando di SPZ, o, almeno, così mi piace pensare; coinvolto, come sono, dal marasma chiamato sessione invernale. Quando ho avuto il piacere di parlare una ventina di minuti con Andrea, ho ritrovato in lui tutto ciò che un artista, secondo il mio modesto parere, deve possedere: talento cristallino, mente sempre attiva, che esprime con naturalezza le sue opinioni, senza paura o timore di essere giudicato.
Venerdì scorso è uscito il suo primo album, NOI/GLI ALTRI, che lui, in realtà, definisce «un grande EP da otto tracce». Tra atmosfere psichedeliche e indie rock, SPZ è la miscela perfetta per chi ama il pop ma vuole anche concedere all'orecchio un po' di sano sperimentalismo. Abbattere le etichette che danno gli GLI ALTRI è il compito del lavoro, ma la proposta più alta è quella di prendersi un pezzetto di cuore della scena musicale italiana. Su questo siamo certi della riuscita: ci ha già conquistato.
Il 29 gennaio è uscito il tuo nuovo album NOI/GLI ALTRI: quali sono le differenze che gli ascoltatori troveranno rispetto all’EP Quattro?
Cambia tutto. Quattro era nato come un inno alla semplicità, volevo ritrovare quella dimensione di far musica semplice, ridurre le cose all'essenziale. Invece in NOI/GLI ALTRI c'è molta più produzione, ci sono tanti generi che si mischiano. C'è molta più ricerca sul suono, sound design. Soprattutto è un progetto pensato a priori a differenza del primo EP, che invece era un insieme di demo. La prima di queste l'ho registrata da solo e successivamente è uscita con Undamento. In realtà, all'inizio, avevo messo un video su YouTube da solo e, tramite un amico in comune di un'altra label indipendente , sono stato poi contattato dall'etichetta ed è iniziato tutto.
Qual è il concept dietro al nuovo album e quale il significato che dai al concetto di «siamo fatti di altri»?
Il concept è il fatto che l'identità di ognuno di noi è mediata dal rapporto che abbiamo con gli altri. In qualche modo, quindi, gli altri ci determinano, il che causa un conflitto quando ti poni la questione: «Come posso essere un individuo se sono gli altri, effettivamente, a determinarmi?». Questa è la domanda del disco e la risposta che io cerco di dare è che sia bello che gli altri ci determinino, al contrario sarebbe brutto pensare che gli altri fossero tutti come me. È un viaggio su questo ragionamento, sul rapporto che abbiamo con gli altri e alla fine il messaggio è l'accettazione di questa realtà, che di fatto è così.
Al di là di questo, c'è anche un'altra metafora, più strettamente musicale: NOI/GLI ALTRI è anche inteso come IO (musicista) e GLI ALTRI (che fanno musica). C'è questa mia volontà di andare incontro a generi diversi, come se mi mettessi dei costumi diversi, fossi nei panni degli altri. Alla fine risulta essere un'idea che potenzialmente abbatterebbe i confini tra noi e il diverso, il differente, che tende e spinge ad un'unione globale: arte, menti, lingue e popoli.
Come è nata Scenderei anch’io (che, tra l'altro, è la mia preferita dell'intero album)?
È stata una delle prime che ho scritto. Rappresenta il passaggio di suoni che c'erano nell'EP a questo nuovo lavoro.
C'era una manifestazione a Roma, a Piazza San Giovanni, ed è la mia personale risposta al coro: «Scendi giù, scendi giù, manifesta pure tu». Allora mi sono messo a scrivere ed è uscita Scenderei anch'io. C'è un po' di senso di disillusione, perdita della speranza di fare qualcosa manifestando. È un po' una reazione presa a male. La canzone parla dell'immobilismo, dello stare a casa senza un lavoro.

E invece, qual è la tua preferita di NOI/GLI ALTRI?
Guarda ce ne sono due-tre che mi stanno a cuore, tra cui IlGRANDEIl. Un pezzo molto vecchio, prima era stoner, poi con questa sonorità folle. Ti direi anche NOI/GLI ALTRI perché è una canzone nata per gioco, ironica. In quel pezzo io ho preso degli elementi trap (anche sonoricamente parlando) e ho voluto metterci un testo dadaista che, di primo impatto, può sembrare nosense, ma, per me il senso lo ha eccome. È basata su Piazza Vittorio perché ho avuto uno strano rapporto con quel luogo: mio padre era molto «avvelenato» con i cinesi e Piazza Vittorio e, in questo senso, c'è anche un po' di rivalsa.
IlGRANDEIl è una canzone molto sperimentale: quali sono state le influenze che ti hanno accompagnato nella stesura e arrangiamento della canzone?
Il testo l'ho scritto a quattro mani con Lorenzo, un ragazzo che suona con me da sempre, ma è di tanti anni fa... 2014 penso. Le sonorità non sono state troppo determinate: andavo ad improvvisare a un box a Furio Camillo .
Hai realizzato questo pezzo per abbracciarti a un pubblico vario e un po' più variegato?
Non l'ho fatto propriamente per questo. Volevo continuare a far passare il messaggio del voler abbattere queste barriere: le recinzioni, le etichette. Mi sembra siamo giunti in un'epoca che non ha poi molto senso possederle e affibbiarle. Dire che si fa indie, pop, rock... no. Direi più che faccio quello che mi piace. Ovviamente non so poi come la prenderà la gente, ma nel mio piccolo sono fiducioso e ci provo.
Perché il featuring con See Maw e Voodoo Kid?
Perché è successo in maniera naturale. Sotto questo aspetto sono molto aperto e se mi trovo bene con una persona e ci troviamo in uno studio le cose succedono e se ci piace allora tendiamo a lavorare insieme e a sceglierci a vicenda. Più precisamente, con See Maw abbiamo amicizie in comune perché siamo nella stessa etichetta. Ci siamo trovati con tutti e due in questo casale con uno studio all'interno, d'estate, in Toscana: abbiamo cazzeggiato un po' ed è nata la canzone, senza una premeditazione particolare. È venuta fuori così e ci è piaciuta.
Come è nata l’idea per il video di Tra il dire e il fare?
Anche qui, come dire, è stato tutto molto... casual . Siamo andati a Praga a girare quel video perché avevo un amico che studiava per una scuola di cinema e avevamo accesso a tutta l'attrezzatura, comprese le telecamere, a costi abbattuti. Lì c'era questo enorme negozio di costumi dove prima che io andassi a Praga avevamo un attimo pensato anche all'idea del video di Scenderei anch'io: una bara, dei costumi ottocenteschi... Per Tra il dire e il fare avevamo un po' improvvisato e, scegliendo determinati costumi, mi era venuta in mente di fare una storia d'amore lesbica. Questa era la mia idea di base, però, con la gente con la quale lavoro, mi piace anche lasciare spazio alla loro creatività quando si tratta di prendere decisioni. Così mi sono un po' fidato dei ragazzi ed è uscito il video.
Last but... assolutamente, not least: un consiglio musicale e uno letterario che ti senti di dare ai lettori di NoisyRoad?
Allora, consiglio musicale: oggi mi sento molto afro-beat quindi ti dico Francis Bebey, un giornalista franco-camerunense degli anni '80 e consiglio Sanza Nocturne.
L'altra era consiglio letterario? Siddharta di Hermann Hesse e si va sul sicuro secondo me! È il mio scrittore preferito, l'ho letto un paio di volte: un'esperienza.
Però ora sono rimasto con il dubbio: c'è qualcosa di Hesse in NOI/GLI ALTRI?
Eh... non lo so. Magari. Qualche concetto lo posso aver preso pure da lì, però Siddharta è uno di quei libri che, quando lo leggevo, dicevo tra me e me: "Cazzo io a queste cose ci sto pensando veramente in questi giorni!". È stato un po' come arrivare ad un'epifania: quando hai ancora un concetto un po' nebbioso in testa però l'hai visto, hai scorto i contorni e poi, leggendo il libro, lo vedi, finalmente, definito e nitido.