Noise rock che sfocia quasi nel metal, rap e alt jazz: i tre generi che si intersecano in ogni canzone dei Maruja sono la manifestazione dei tre lati della loro anima. Quello rabbioso, quello politico-sociale e quello assetato di libertà. Harry Wilkinson (voce e chitarra), Joe Carroll (sassofono e cori), Jacob Hayes (batteria) e Matt Buonaccorsi (basso) dal 2019 suonano e girano tra Regno Unito, Europa e America. Proprio quell’anno è stato decisivo. Un cambio di stile, di approccio e di direzione. Ci sono voluti tre EP e sei anni, prima di registrare il primo album che, paradosso, dopo tutto questo tempo hanno dovuto completare in appena due mesi. La band britannica, tenendo fede ai principi che la guidano, ovvero improvvisazione e perfezionismo, ha impresso a Pain to Power, uscito venerdì scorso, tutti i connotati del tempo presente. È il disco del momento perché parla del momento.
Harry lo ribadisce più volte durante la nostra chiacchierata: all’artista spetta il compito di rappresentare e tentare di cambiare il tempo presente. E lo fa con la stessa fiducia, così prepotente e determinata che, per quanto tu possa essere scettico, alla fine dei nove brani o anche solo dopo i dieci minuti di Look Down On Us, hai ereditato dalle sue parole e dai suoni del sax e delle chitarre. «Non vogliono che tu ti senta in grado di cambiare le cose. L’obiettivo delle nostre canzoni è convincere la gente del contrario. La solidarietà e il senso di comunità possono cambiare le cose» spiega.
Un po’ come hanno urlato gli IDLES nel loro ultimo disco, l’amore può avere la forza di un cingolato. La musica dei Maruja segue lo stesso movimento tribale: punta a unire, guarire e spingere le persone ad avere fiducia. E lo fa attraverso un crossover creativo che se ne frega delle regole discografiche. Brani lunghi, alcuni lunghissimi e metamorfici che si animano ancora di più durante i loro concerti movimentati e ricchi di mosh pit (a tal proposito, torneranno in Italia il prossimo 29 novembre alla Santeria di Milano). Pain to Power è uno dei debutti più interessanti di quest’anno che sebbene possa sembrarvi molto distante, in realtà è molto più vicino a voi di quanto pensiate.

Siete in giro da un po' di anni ormai. Come ci si sente ad avere finalmente tra le mani il proprio primo album?
Ci è voluto molto tempo è vero, sono in questa band da undici anni. È abbastanza ironico il fatto che non avessimo ancora mai pubblicato un disco. Finalmente abbiamo superato questo ostacolo.
E l’avete superato addirittura scrivendo Pain to Power in due mesi, anche questo ha un po’ dell’incredibile.
È stato intenso perché la registrazione è stata programmata tra due tour. Quando siamo entrati in studio per scrivere e registrare il disco eravamo reduci da cinquanta giorni di tournée e, appena finito, siamo ripartiti per l’America dove abbiamo suonato per un altro mese intero. Quindi avevamo solo pochissimo tempo per finalizzare il tutto. Da un lato è stato stressante perché, quando si tratta della nostra musica, siamo un po' perfezionisti. Vogliamo assicurarci che tutto sia come desideriamo che debba essere. E questo richiede tempo e molta riflessione. Dall’altro questo bisogno di velocità ha tirato fuori il meglio di noi.
Col senno di poi avreste voluto avere più tempo?
Beh, un po’ più di tempo sarebbe stato ovviamente gradito, ma è vero che i tour erano già prenotati dall’anno prima. Essere una piccola band emergente vuol dire non avere scelta. Ci vogliono moltissimi concerti per farsi conoscere, ma soprattutto per poter banalmente sbarcare il lunario e guadagnarsi da vivere. Tuttavia, l’esperienza in studio è stata davvero fantastica.
Tutto il processo creativo è avvenuto in quei due mesi quindi?
In realtà durante il tour avevo scritto un bel po’ di testi proprio perché sapevo che avremmo avuto poco tempo e non volevo realizzare un intero album nel giro di due mesi. Volevo concedermi il tempo di riflettere e pensare al messaggio da trasmettere al pubblico. Poi in studio gran parte della nostra musica nasce dall'improvvisazione. È come se avessimo un grande archivio da cui attingiamo e attraverso cui creiamo canzoni. Zaytoun, per esempio, è del tutto frutto di improvvisazione. Il fatto che mi sia presentato con dei versi già pronti ci ha però aiutato a stabilire alcuni parametri dal punto di vista sonoro e visivo.
Hai fatto riferimento al perfezionismo e all’improvvisazione, come riuscite a bilanciare i due approcci?
Per certi versi l'improvvisazione è la registrazione giusta al momento giusto. Suoniamo insieme da anni e diamo il meglio quando lasciamo fluire le nostre emozioni. Quando improvvisiamo è come se diventassimo una cosa sola, una mente gigante. C'è una sorta di assenza di pensieri che ci circonda e tutto ciò che facciamo è essere veicoli di creatività. Ci aiuta a essere liberi da preconcetti e sovrastrutture. La somma è molto più grande di ciascuno di noi individualmente. E questo riflette anche il nostro messaggio che riguarda l'unità, la solidarietà e l'amore di fronte a un mondo oppresso. La cosa in più arriva dopo, quando dobbiamo smontare questi frammenti perfetti e aggiungere le strofe, un eventuale ritornello o il bridge.
Quando scrivi i testi invece?
Dipende molto dalla musica e dall’atmosfera che creiamo. Per esempio, se è un brano strumentale cupo e brutale, probabilmente parlerò di cose che influenzano le persone, la loro salute mentale e di questioni che mi fanno arrabbiare. Vedere la disuguaglianza, il capitalismo che stravolge completamente i concetti di ciò che è realmente una cultura. Vedere il genocidio e vedere tutti gli orrori che vanno in scena in diretta sui nostri cellulari. Credo che sia compito dell'artista riflettere il volto in continua evoluzione del mondo.
Quanto c'è di quella rabbia in Pain to Power?
Moltissimo. Mentre registravamo e scrivevamo è stato un anno molto turbolento. Trump è salito al potere per la seconda volta, il che ovviamente ha avuto un impatto enorme sull'economia globale. Quello che sta succedendo in Palestina con Israele è più evidente che mai. E poi i disordini politici nel nostro Regno Unito e l'ascesa della destra in tutto il mondo e in Europa. Pain to Power è un riflesso di tutto ciò che stiamo affrontando in questa era moderna.

Cosa vi rende così sicuri e certi del potere della musica di cambiare o influenzare le cose, soprattutto in un periodo storico come questo?
La musica mi ha cambiato la vita. Ho avuto un'infanzia piuttosto difficile, mi sono successe molte cose brutte. Senza la musica, non so dove sarei adesso. Non so chi sarei. La musica mi ha letteralmente salvato. Ecco perché sono convinto che può salvare anche altre persone. Brani come Saorsie e Reconcile possono essere degli strumenti di guarigione attraverso le strumentali e i mantra che la gente può cantare e in cui può riconoscersi.
Saorsie immagino sia legata alle vostre radici irlandesi.
Sì, in realtà io sono l’unico del gruppo a non avere origini irlandesi. La connessione principale è quella del nostro sassofonista Joe che torna spesso in Irlanda. Suo nonno ha scattato tutte le foto di copertina dei nostri primi tre EP. Il titolo di quella canzone deriva dalla frase Saorsie don Phalaistín che vuol dire Libertà per la Palestina. Un tema a cui teniamo molto e che ha ispirato gran parte di questo disco. L’Irlanda, nello specifico, sente un forte legame con la situazione di oppressione che sta vivendo la popolazione palestinese per quanto ha vissuto nella sua storia. Dal genocidio alla grande carestia.
Intervistando Josh Finerty degli shame, mi parlava di un forte senso di frustrazione nei confronti delle non prese di posizione dei governi europei. Vale lo stesso anche per te?
Sì, provo tanta frustrazione e rabbia. Credo che ci sia anche questo immenso senso di impotenza che turba molta gente. È come se non potessero fare nulla per cambiare la situazione perché siamo stati privati della nostra umanità. Si intravedono sprazzi di solidarietà nei festival, nei concerti o in certi luoghi. Ma in termini di comunità, è come se tutto si sia disintegrato. Le persone hanno paura l'una dell'altra, anche solo di sorridersi mentre camminano per strada. Questo è davvero lo zeitgeist della nostra generazione.
Oggi però sembra che le persone si stiano mobilitando sempre di più.
Sì, partecipare alle manifestazioni è fondamentale. L’altro giorno abbiamo marciato insieme a centinaia di persone, suonando tamburi e cantando all'unisono. È qualcosa di primitivo, è quello che facevamo ai tempi in cui eravamo cacciatori-raccoglitori. L'essenza primaria della musica è cantare e suonare strumenti. Un'attività che unisce, specialmente durante una protesta. E questo è un altro motivo per cui scriviamo la musica che scriviamo, per cercare di ispirare quel senso di auto-empowerment.
Che intendi per auto-empowerment?
Questa cultura vuole farti credere che la tua vita sia banale e che tu sia una persona normale. Perché questo è meglio per la narrativa capitalista. La verità è che noi, come persone, siamo potenti oltre ogni misura. Siamo amore in abbondanza e con la solidarietà possiamo costruire cose oltre i nostri sogni più sfrenati. Possiamo realizzare miracoli. Ma questa cultura non vuole che tu lo creda. Non vogliono che tu ti senta in grado di cambiare le cose. Quindi è nostro compito cercare di ricordarlo alle persone. Faremo tutto il possibile. Che si tratti di raccogliere fondi durante i nostri concerti, sensibilizzare il pubblico, scrivere canzoni, partecipare a proteste. È frustrante, ma non possiamo lasciarci sconfiggere, perché senza persone che si oppongono, la libertà di parola morirà lentamente e il mondo diventerà un posto molto fascista in cui vivere. Sta già andando in quella direzione.
In Trenches c’è un concetto che mi ha colpito: indoctrinate pain. Pensi che questa nuova generazione, che sembra più impegnata, si stia liberando da quell'indottrinamento?
C'è un trauma generazionale. Si tratta di cose di cui spesso abbiamo troppa paura di parlare: la mascolinità tossica o un padre che pensa che sia sbagliato che suo figlio sia gay. Sono cicli che si ripetono da generazioni. E la gente non riesce a uscirne perché spesso la loro famiglia è coinvolta. È molto difficile quando la persona che dovrebbe essere la tua guida ha questi principi etici che, beh, non sono etici. E sì, è compito della nostra generazione liberarsi da questo circolo vizioso e dalle catene che ci sono state tramandate. Oggi siamo più consapevoli di cose come la psicologia, la salute mentale, la filosofia e la scienza. Penso e spero che si possa interrompere il ciclo.
