Uno dei primi dischi nei quali mi sono imbattuto quando ho iniziato a essere risucchiato dalla spirale post-punk/new wave britannica post-brexit è stato Songs of Praise degli shame. Era il 2018 e quei brani veloci, abrasivi, ma comunque con qualche scampolo melodico, come One Rizla e Concrete mi colpirono al primo ascolto. Cinque ragazzi, amici dai tempi delle superiori di cui la critica, perlomeno di settore, parlava un gran bene. Dopo oltre dieci anni quell’ondata non si è più fermata, anzi, alcune di quelle band hanno sfondato la parete e sono entrate nel mondo del quasi-mainstream.
Parlando con il bassista Josh Finerty, il primo nome è ovviamente quello dei Fontaines D.C., che gli shame hanno accompagnato in tour in gran parte delle loro date europee. «È stato importante per noi. Sono una band fantastica, oltre che degli amici. Suonare prima di loro ci ha dato l’opportunità di farci vedere anche da chi, nel loro pubblico, non ci ha mai ascoltato ed è alla ricerca di quel genere di musica». Josh non ha proprio ragione su questo punto, perlomeno per quanto riguarda l’Italia. La scorsa estate il gruppo ha dedicato una parte della sua tournée proprio al nostro Paese. «Abbiamo un amico, Enzo, che ci ha portato in giro in macchina e ci ha consigliato delle ottime trattorie e ristoranti facendoci conoscere dei posti davvero fantastici» racconta connesso su Zoom dalla sua casa londinese.
Il 3 novembre torneranno di nuovo a Milano, ai Magazzini Generali, per presentare dal vivo il loro quarto disco, Cutthroat. Un album che ripesca quella velocità e quella voglia di essere diretti e privi di peli sulla lingua del debutto. Persino politico in alcuni punti (quest’anno va di moda il tema dei codardi). Il sospetto è che, dopo l’apice raggiunto con il cupo e personale Drunk Tank Pink, con Food for Worms gli shame abbiano provato a compiere il salto nel sopracitato mondo dell’alta classifica. Nel terzo album c’erano pezzi più melodici, persino Phoebe Bridges, e altri fin troppo complicati. La risposta a quel disco che non li ha portati così in alto come si aspettavano è un ritorno al divertimento. John Congleton in questo è un mago.
E Cutthroat così è il miglior disco di Charlie Steen, Eddie Green, Sean Coyle-Smith, Josh Finerty e Charlie Forbes dal 2021. Perché non è un mero comeback alle origini, ma a livello musicale ci sono intuizioni elettroniche interessanti. La scrittura di Steen è in formissima come nell’esotica e storica Lampião. E come sottolinea Finerty in modo implicito nel corso dell’intervista: «La frustrazione nei confronti del mondo contemporaneo» è uno degli aspetti che li rendono ancora affamati.

Cutthroat ha avuto un processo particolare come quello di Food for Worms o l’avete scritto in tour?
Non siamo molto bravi a scrivere durante le tournée, abbiamo bisogno di entrare nello stato mentale giusto. Qualche volta ci è capitato di provare qualcosa durante i soundcheck, ma nel complesso il disco l’abbiamo scritto prendendoci del tempo appositamente. Credo che abbiamo iniziato a lavorarci nell’agosto del 2023, subito dopo la fine dei concerti per il terzo album. E all’inizio abbiamo adottato lo stesso approccio, ovvero scrivere un sacco di brani nell’arco di una settimana. Però siamo abbastanza severi con noi stessi a volte e così abbiamo continuato a scrivere fino al novembre dell’anno successivo.
Quindi più di un anno di scrittura?
Più o meno sì. Abbiamo fatto più viaggi in cui ritrovavamo insieme per lavorare. Il primo gruppo di canzoni le abbiamo scritte in un luogo chiamato Rugby, il secondo a Eastbourne. Ricordo che si continuava a discutere di continuare a scrivere altri brani finché a novembre dello scorso anno ci siamo detti: «No, dobbiamo andare a registrare. Sta diventando ridicolo. Prenotiamo e facciamolo».
Questo bisogno di scrivere molte più canzoni del solito è frutto di una maggiore pressione che sentivate?
Penso che ci sia sempre una certa pressione all'interno della band. È come se tutti volessero spingersi al massimo per realizzare il miglior album possibile. Con il tempo siamo diventati più bravi ad affrontarla e a non preoccuparci troppo. Ovvio che spesso c'è ancora molta tensione, o meglio, c'è molta frizione quando scriviamo, ma è una cosa positiva. Fissare una scadenza, per esempio, ci mette nelle migliori condizioni e a quel punto è paradossale, ma è come se l’ansia scomparisse con la concentrazione. Io personalmente sono decisamente migliorato nel non lasciare che la pressione influenzi la mia salute mentale o nel non preoccuparmi troppo del fatto che tutti ascolteranno quei brani.
Penso che sia uno dei processi di crescita di una band. Avete iniziato quando eravate a scuola, all'università, come amici, e poi è diventato il vostro lavoro.
Sì, a volte è quasi come se la pressione fosse quella di dover lavorare ancora con le stesse persone, quindi il riuscire a mantenere quella coesione tra noi. Ed è bello che dopo tutti questi anni siamo ancora capaci.
John Congleton, dopo James Ford e Flood: tre suoni diversi. Cosa è cambiato con John?
Ho adorato il suo modo di porsi in studio. È diretto, persino spietato qualche volta. Premetto che quando abbiamo iniziato a lavorare al disco sapevamo di essere una band molto democratica composta da cinque persone. Quindi quando scriviamo cerchiamo di non pestare troppo i piedi agli altri. Per esempio, Sean è bravo a trovare l'inerzia della canzone e poi io sono abbastanza bravo a strutturarla dopo. Abbiamo dei ruoli ben definiti. Ma per quanto riguarda le decisioni finali, preferiamo che sia qualcun altro a prenderle, vogliamo una sesta opinione che sia quella definitiva, solo perché abbiamo bisogno di essere un po' frenati.
E John era più diretto in questo senso?
Sì, non aveva paura di dirci di togliere una parte perché non andava. In questo è molto simile a James Ford. Flood era più incline a farci provare e riprovare tutto un milione di volte finché non si tornava all'inizio. E l'inizio di solito era come l’idea originaria. Ma era divertente a modo suo.
Cutthroat è molto più vicino ai suoni veloci e ruvidi del debutto Songs of Praise. Un’idea con cui siete partiti dall’inizio o maturata nel mentre?
Penso che ci abbiamo provato fin dall'inizio e che sia sempre stato così. Dopo il secondo album abbiamo voluto rendere tutto più diretto. Con Food For Worms non siamo riusciti a controllarci come abbiamo fatto con questo disco. Gran parte di ciò è dovuto anche al tira e molla tra i membri della band. Penso che Charlie e io abbiamo imparato ad apprezzare sempre di più nel corso degli anni il fatto che le mie canzoni preferite sono quelle divertenti da suonare dal vivo. Per cui credo che, in parte, sia stata una decisione consapevole quella di scrivere meno pezzi tristi ed emotivi.
Vi siete quindi basati sulla volontà di divertirvi e far divertire.
Sì, perché poi in Songs of Praise non è che mancassero dei momenti più lenti. Penso che lo stile di produzione abbia contribuito. I primi due album sono stati registrati in modo molto rilassato, ma anche molto meticoloso. Rifiniti, ma in un modo che li fa sembrare immediati. Dal punto di vista sonoro Cutthroat è molto simile.
Questo disco credo che sia anche il vostro lavoro più politico. A livello di tema generale, di testi e messaggi.
È sempre stato un elemento importante per noi, ma forse non l'abbiamo reso, come dire, non l'abbiamo mai reso così evidente come in questo caso. Cutthroat, un po’ come il nostro esordio è più esplicito e diretto rispetto a certi temi. La situazione mondiale attuale, la Palestina, la transfobia diffusa, tutte queste cose, insomma, hanno contribuito. Devo ammettere che non sono bravo a chiedere a Charlie cosa si nasconde dietro i testi che scrive. Ci sono anche molte cose che riguardano la sua vita privata. Ma sì, penso che in parte sia voluto tornare all'etica degli inizi della band. Quando eravamo più in sintonia con il fare musica che parlasse di argomenti di attualità.
Con molti altri artisti vi siete esposti sulla Palestina. Come vivete, da inglesi, la situazione corrente nel vostro Paese, considerando ciò che sta accadendo ai KNEECAP o ai sostenitori di Palestine Action?
È molto alienante e ti fa anche sentire piuttosto inutile. Penso che quello che fanno i KNEECAP nel diffondere il messaggio sia fantastico. Ed è davvero frustrante che dopo due anni il Governo abbia appena iniziato a esprimere una sorta di condanna e che non stia agendo. E come quello inglese anche la maggioranza degli altri stati. Poi è ancora più straniante per chi vive a Londra come me, perché ci sono tantissime persone progressiste che la pensano allo stesso modo e ti viene da pensare: «Siamo la maggioranza, siamo tutti d’accordo. Perché non fanno nulla?».
Cutthroat è anche un disco dove provate nuove strade, per esempio, ascoltando le sezioni elettroniche di Axis of Evil.
Oh quelle sono merito di Sean che aveva questa specie di gameboy modificato, un tracker synth. Senza tastiera, ma solo dei pulsanti di selezione e basta per programmare. La qualità audio è incredibile. Ha creato dei frammenti, brani non completi, che ci stuzzicavano per il tipo di suono. Quando abbiamo prenotato lo studio, siamo andati nelle sale prove ed è stato allora che ho pensato: «Ok, forse potresti programmare un sol, poi un fa o qualcosa del genere per il ritornello».
Quando ho ascoltato quel pezzo ho pensato subito ai Viagra Boys con cui siete stati in tour tempo fa.
Suonare prima di loro e vederli esibirsi è stato molto divertente. Nonostante siano in giro da un po’, quando suonano hanno ancora quella voglia di spassarsela tipica delle band giovani. Mi hanno ricordato i nostri primi tempi. Di certo, in termini di suono e attitudine è probabile che un po’ della loro polverina magica ci sia rimasta addosso prima della scrittura del disco.
In To and From c’è un verso che mi ha colpito: «It's not about greed, but about hunger». Cosa vi rende ancora“affamati” dopo questi anni di carriera?
Non so come rispondere, ti direi la vita e l’arte. Quando fai la stessa cosa per undici anni o giù di lì, hai bisogno di trovare qualcosa. Che sia nei film o nei videogiochi, non lo so, c'è qualcosa di bello nel creare arte e condividerla. E ancora di più poterlo fare viaggiando per il mondo. Per me è più questo senso di gratitudine. Non è proprio una buona risposta. Dovrei chiederlo a Charlie cos’è che lo rende affamato (ride n.d.r.).
Ripensando ai vostri inizi, c’è qualcosa che ti manca?
In quel periodo si beveva molto, si faceva sempre festa. Sicuramente oggi non riuscirei a reggere quei ritmi. Quello che era davvero divertente quando abbiamo iniziato era che non c'erano molte band in giro. C'era una carestia. La musica con la chitarra non era più cool. Tutti i nostri amici ascoltavano solo hip hop e noi eravamo gli strani. Dicevano: «Oh, sei in una band, è davvero da vecchia scuola». Oggi, almeno a Londra e in Inghilterra, la tendenza è cambiata. Suonare in un gruppo è diventata una cosa figa. Mi manca un po' quella sensazione di essere un outsider. Era come se stessimo creando qualcosa di nuovo, suonando in questi strani piccoli club senza conoscere nessuno e dove all’inizio non c'era davvero nessuno della nostra età.
La cosa che ancora mi stupisce è che nel giro di uno o due anni sono nate un sacco di band. Dall’interno, vi rendevate conto di questa new wave?
Sì, ma non avevamo idea di quanto sarebbe potuto durare il fenomeno. Tra band ci conoscevamo e pensavamo solo a divertirci e suonare la musica che ci piaceva. Non immaginavo che si sarebbe arrivati alla situazione di oggi dove ci sono i Fontaines D.C. che nel giro di due anni saranno headliner a Glastonbury e molti altri gruppi come le Wet Leg. Parlando di questa cosa anche con altri artisti, mi sono reso conto che comunque ci sono stati dei gruppi che hanno piantato dei semi. Per esempio, i Gilla Band. Tra il 2014 e il 2015, quando debuttarono, tutti coloro che li hanno visti suonare, compreso me, sono rimasti segnati dal loro suond così diverso e unico. A loro devono in molti.