Quando si sente parlare di artisti che vengono dalla Francia, la classica rock band non è esattamente la prima cosa che salta alla mente. C'è la musica elettronica, la scena hip-hop, quella pop e, solo infine, il rock. Tra le tante band che sgomitano per guadagnarsi il loro spazio, ci sono i Last Train, originari di Lione, caratterizzati da un muro del suono bello deciso e identitario. Tanto da essere notati da Matt Bellamy dei Muse e Brian Molko dei Placebo, che li hanno voluti come band di apertura alle loro date.
Il tour dei Last Train per la promozione del loro ultimo album III (uscito lo scorso gennaio) farà tappa anche in Italia con un'unica data l'1 novembre al Biko di Milano. Per l'occasione abbiamo fatto due chiacchiere con Jean-Noël Scherrer, cantante e chitarrista della band, per farci raccontare come stia andando il loro viaggio e come sia per una band rock francese provare a emergere fuori dai propri confini.

Siamo nel bel mezzo del tour e fra pochissimo sarete qui in Italia. Come sta andando? Come vi sentite?
Alla grande! È sempre bello stare sul palco, vedere un pubblico diverso ogni sera e fare casino insieme. Siamo stati fermi un paio d'anni per ricaricare un po' le batterie dopo cinquecento o addirittura seicento concerti in appena due anni. Abbiamo prodotto e registrato due dischi, ma il rovescio della medaglia è comunque quello di non farsi vedere per ben due anni, e se uno si sofferma a pensarci, soprattutto al giorno d'oggi, non è così scontato prevedere la risposta del pubblico. Quindi vedere tutta questa gente ai nostri live è stato bellissimo, sta andando bene e tutte le date in Francia sono andate sold out: la dimensione live è fondamentale e vedere la risposta del pubblico... beh, non poteva andare meglio!
Ci sono stati particolari paesi in cui avete notato una risposta particolarmente positiva o la Francia rimane il riferimento principale?
Beh, la Francia è ovviamente il nostro mercato principale, visto che qui abbiamo avuto la possibilità di stare molto più tempo in tour e visto che la nostra vita, come band e come individui, si è sviluppata qui da quando avevamo tutti 12 anni. Sappiamo che qui ci conoscono, ma sappiamo anche che vogliamo raggiungere lo stesso obiettivo anche negli altri paesi e per questo dobbiamo lavorare duro e continuare a suonare. Siamo felici per questo, perché ci piacciono le sfide e significa che abbiamo ancora margine in un paese ad esempio come l'Italia.
Cosa vi aspettate dal live qui in Italia, essendo la prima volta che suonate?
In realtà non è la primissima volta: molto tempo fa ci ospitarono per un live in un piccolo bar di Genova, furono gentilissimi con noi e spinsero tantissimo perché il nostro tour europeo passasse anche da lì. Allora eravamo noi quattro della band con il nostro van e questo attaccamento ci trasportò. Il giorno dopo sfruttammo l'occasione per registrare un video proprio sulle spiagge appena fuori città: alla fine è diventato il videoclip di una nostra canzone, Fire. Un bellissimo ricordo dei nostri esordi, ma effettivamente al Biko sarà la nostra prima volta in Italia in un club vero e proprio.

Generalmente se si pensa alla musica francese, il primo pensiero va alla scena elettronica. Com'è essere una rock band in Francia? Com'è la scena e il percorso che si deve compiere?
Bella domanda. La scena rock francese è molto più ricca e interessante di quanto si possa pensare, con tantissime band di talento, dal rock più puro all'indie rock. Effettivamente a saturare il mercato sono gli altri generi, per cui ricavarsi il proprio spazio non è per nulla scontato e semplice, ci vuole molto lavoro e ci vuole voglia di mettersi alla prova anche con l'estero. Si fa davvero fatica a trovare una ragione, perché sia i dischi che le band sono di buona qualità, per cui penso sia una questione culturale e di abitudine: alle band inglesi e americane basta spesso un disco o un brano per essere notate dal pubblico nazionale e internazionale. E questo solo perché si dà per scontato che quella sia la musica rock di riferimento. Visto dall'esterno invece posso dire, facendo autocritica, che il mercato francese tende ad essere molto "comodo" e molti artisti faticano a decidere di abbandonare il nido per scontrarsi con qualcosa di più grande: per cui sì, magari si fanno buone cose, ma non si vengono a sapere.
Pensi che il vostro suono sia stato più influenzato dalla scena internazionale o ci sono elementi specifici che definiresti provenienti dalla scena di casa?
Non penso sia così chiaramente distinguibile e ci colleghiamo alla risposta precedente. Se pensi all'elettronica subito ci associ il French Touch: ma per il rock un corrispettivo non c'è. Sono però entusiasta dell'idea che nel 2025 sia molto semplice entrare in contatto con tanti generi e realtà differenti, per cui i Last Train non penso abbiano delle influenze così facilmente distinguibili. Ascoltiamo pop, folk, ovviamente rock e anche le colonne sonore dei film: tutto può essere una potenziale ispirazione.
E all'interno della scena francese ci sono differenze tra le diverse città o aree del paese? Per esempio in UK quasi tutte le città principali hanno sviluppato una loro scena con delle caratteristiche comuni.
Penso che questo discorso sia molto più adatto per il rap e l'hip-hop, ad esempio. Parigi al nord e Marsiglia al sud sono due cose totalmente differenti, mentre nel rock è tutto molto più 'disordinato'.

Veniamo al vostro ultimo disco III, per cui siete ora in tour. Come siete cambiati nel corso degli anni rispetto ai primi lavori? Lo metteresti sullo stesso piano di Weathering, ad esempio, dove sentivo personalmente molto grunge?
Mi piace sempre dire che le influenze cambiano per forza, perché siamo noi stessi a cambiare. Se hai sentito del grunge nel nostro debutto è perché evidentemente ce n'è (sorride, ndr). Nei primi lavori eravamo appena maggiorenni, mentre ora siamo all'orlo della trentina: è cambiato tutto (e per fortuna). È la parte bella ed entusiasmante di essere una band ed invecchiare: avere la possibilità di esprimere il cambiamento attraverso la musica, provare cose nuove. Questo è sicuramente uno degli obiettivi di questa band.
Come mi accennavi, viaggiate molto per suonare il più possibile: questo è compatibile con la scrittura o le due cose non possono coesistere per voi?
Penso che sia impossibile pianificare la scrittura sulla base del calendario e delle ore libere a disposizione in determinati periodi. Spesso non trovi l'ispirazione e altrettanto spesso arriva proprio nel bel mezzo di un altro impegno. Oltretutto siamo una band indipendente e questo ci impone una serie di impegni collaterali come l'organizzazione di un tour, degli eventi singoli, delle stampe, della promozione. Trovare spazio e tempo per scrivere ci è spesso impossibile, per cui per noi le due cose non sono compatibili. A volte le idee arrivano e a quel punto devi decidere se temporeggiare o se interrompere quello che stai facendo per assecondare la creatività. Sono scelte e bisogna stare concentrati sul proprio percorso. Personalmente, preferisco prendere del tempo per me, come ad esempio le vacanze che trascorro tra le montagne a camminare per riflettere e schiarirmi le idee. Ed è lì che scrivo principalmente.
Qual è per te il fulcro di III?
Nella critica si è parlato di rabbia, ma non penso che la rabbia sia effettivamente la ragione principale per cui abbiamo scritto questo disco. Testi e musica sono sempre molto personali e ci riesce più semplice scrivere e focalizzarci sulle energie negative che sui momenti felici: è il modo in cui riusciamo ad esprimerci. Per cui in questo senso forse riguarda la rabbia: attraverso la musica ci viene naturale lasciare andare tutta la rabbia che abbiamo dentro. E qui torniamo alla dimensione live, perché è lì che riusciamo a dare tutto quello che abbiamo e probabilmente a massimizzare la comunicazione. Essendo una cosa legata così strettamente alla nostra essenza e personalità, non vedo grosse differenze rispetto ai nostri due dischi precedenti. L'unica, come detto poco fa, è l'età, nonché l'esperienza.

La canzone che probabilmente rappresenta meglio i trentenni Last Train?
Direi How Does It Feel?, nonostante sia forse quella all'apparenza più calma. Penso però sia una bella foto panoramica di chi eravamo al momento della scrittura e dell'incisione del disco. Il titolo è di fatto una domanda, perché preferisco sempre che chi ascolta si trovi da solo le risposte: non penso che debba essere compito dell'artista mettere nella bocca dell'ascoltatore un'opinione già confezionata.
Com'è stato aprire i concerti di band come Muse e Placebo?
È stato assurdo andare in tour con i Placebo e aprire un paio di volte i Muse, band che ammiriamo a 360 gradi. I Muse poi ci hanno influenzato tantissimo, soprattutto agli esordi: i loro live a Wembley sono stati una delle spinte per diventare artista e tirare su la band. Abbiamo avuto la fortuna di parlare e confrontarci sia con Matt Bellamy che con Brian Molko, che si è molto interessato al nostro progetto. Cert,o con lui è stata solo un'interazione, ma del resto non è facile creare rapporti profondi con delle rockstar del loro livello che sono sempre circondate da tantissime persone. Abbiamo il massimo rispetto per loro.