09 febbraio 2021

L'elogio delle ombre: intervista a Puma Blue

La florida scena new jazz londinese ha trovato in Puma Blue una delle sue migliori forme di espressione. Il 25enne Jacob Allen, questo il suo vero nome, ha finalmente pubblicato oggi il suo disco d’esordio In Praise of Shadows, che conferma ulteriormente che i paragoni ai quali era stato accostato, sin dai precedenti due EP pubblicati, non erano campati in aria: se vi piacciono artisti come Jeff Buckley, James Blake e King Krule, Puma Blue fa proprio per voi. E attenzione: non immaginatevi una brutta copia o un’imitazione, perchè in questo disco le influenze e contaminazioni sono talmente tante e variegate, che non è semplice poterle riconoscere tutte. Il disco, come è normale che sia per un debut album, è una sorta di best of dei brani che l'artista ha scritto fino a ora: e di esperienze difficili Jacob ne ha vissute diverse, a partire dal tentato suicidio di sua sorella nel 2015 che l’ha segnato profondamente e che è riuscito a elaborare grazie a Velvet Leaves, il primo singolo del disco. 

Ho raggiunto telefonicamente Puma qualche giorno fa, per parlare di molte di queste tematiche, e mi sono ritrovato di fronte non solo un artista estremamente sensibile, ma anche molto colto. E di questi tempi, non è una cosa da sottovalutare. 

 

Partiamo dal titolo: In Praise of Shadows è una citazione del libro di Jun’ichirō Tanizaki. Sei appassionato di letteratura giapponese?
Ho letto parecchi libri giapponesi oltre a quello di Tanizaki, ma non potrei definirmi un esperto. Sono stato attirato da In Praise of Shadows perchè è una lettura estremamente confortevole e accogliente. È stato veramente interessante leggere del rapporto fra l’oscurità e l’architettura e l’estetica giapponese. E mi è rimasta impressa nella mente questa metafora riguardo l’elogio dell’oscurità nella nostra vita, il sapere accettare le cose ed andare avanti, con la consapevolezza che non c’è luce, senza buio.

Quanto tempo ti ci è voluto per realizzare questo album?
Mi ci sono voluti qualcosa come tre anni per completare tutto. Non è che ci ho lavorato ogni giorno per tre anni di fila, ma soprattutto fra un tour e l’altro. Dopo il mio ultimo EP nell’estate del 2018 ho scritto e lavorato su diverso materiale. Alcuni dei brani del disco poi ovviamente sono molto più vecchi, addirittura di sette anni fa.

Nel corso della tua vita hai affrontato momenti molto difficili nella tua vita privata . In diversi tuoi brani affronti tematiche molto drammatiche e personali. Com’è stato per te esprimere tutto questo nero su bianco?
È complicato, non riesco a darti una risposta univoca. Ho provato a scrivere una canzone come Velvet Leaves diverse volte, ed ero veramente in difficoltà nell’articolare tutte le mie emozioni. E poi un giorno è successo tutto da sé, come per caso. È stato un qualcosa che mi è uscito fuori naturalmente, e finalmente ho saputo esprimere tutto ciò che avevo provato a comunicare invano fino ad allora. E questo vale anche per molte delle altre canzoni del disco: a volte è difficile e provi ad approcciarti a una canzone da diverse angolazioni, perché non riesci a trovare i testi giusti da abbinare alla musica. 
E poi dal nulla, un giorno, tutto ti diventa chiaro, e ti sgorga fuori quasi come se non fossi tu a scrivere e a un tratto realizzi «ehi, ho scritto una canzone!».

Il videoclip di Velvet Leaves mette in parallelo l’oggetto del brano con la tragedia greca di Orfeo ed Euridice secondo Cocteau. E così, ci sei tu nei panni dell’eroe greco che tenta invano di riportare indietro la tua Euridice, in questo caso tua sorella . 
Conosco quel mito da sempre, ma solo recentemente ho visto il film di Jean Cocteau a riguardo. Mi ha rapito subito, è un film meraviglioso, così mistico e magico. Il video di Velvet Leaves è stato il mio modo di rendere un piccolo omaggio alla sua interpretazione del mito. Stavo cercando un modo di raccontare la storia di mia sorella, senza essere troppo specifico o personale, e questa è stata la soluzione perfetta.

Euridice alla fine svanisce e viene rimandata nell’Ade. Come hai conciliato questo finale, con quello per fortuna positivo di tua sorella?
Ho deciso che era importante mostrare ciò che sarebbe potuto succedere, perchè è da quell’aspetto che vengono fuori tutte le emozioni. Se avesse parlato solo della sopravvivenza, probabilmente sarebbe stata una canzone molto felice. Ma invece ha a che fare con il fatto che è incredibile che sia uscita da una situazione del genere. E quindi per me era importante lasciare il mito così com’era, per far capire cosa sarebbe potuto succedere nella mia testa se non fossi riuscito a salvare Euridice dalla stretta degli Inferi.

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Il mito di Orfeo ed Euridice viene ciclicamente ripreso dagli artisti. Fra quelli più recenti e più noti spiccano gli Arcade Fire. Ti sei in qualche modo confrontato anche con la loro interpretazione?
In realtà no, è strano ma mi sa che sono una delle poche persone che si è persa un po’ il treno degli Arcade Fire. Ogni volta che mi è capitato di sentire un loro pezzo in giro, mi è sempre piaciuto ma non mi sono mai messo veramente lì ad approfondirli come ascolto. Penso di averli scoperti molto dopo rispetto a  quando era cool ascoltarli [ride]. Ho sempre pensato fra me e me che un giorno mi sarei messo ad ascoltarmi bene i loro dischi, perchè tutti mi dicono sempre che sono fantastici. Devo ancora farlo.

Nelle tue canzoni tratti temi che negli ultimi anni sono stati sdoganati sempre di più: salute mentale, depressione, suicidio e mascolinità tossica. 
Penso che sia un qualcosa che cerco di fare a livello inconscio con la mia musica: cerco di essere sempre molto aperto riguardo a queste tematiche, spero di avere la fortuna di riuscire ad aiutare la persone attraverso le mie canzoni. Penso che essere aperto e sincero sia il modo più sano per me per sentirmi bene. Provare emozioni, esprimerle senza paura è molto importante: avere una discussione aperta e costruttiva riguardo ad argomenti come la salute mentale è sicuramente qualcosa che cerco di fare attraverso la mia musica. Spero che l’espressione della mia vulnerabilità possa incoraggiare anche gli altri a sentirsi bene e meno soli.

Ci sono stati degli ascolti o delle letture che ti hanno aiutato a superare i momenti difficili della tua vita?
Assolutamente. Un album fondamentale per me è stato Vespertine di Bjork. Quando ho dovuto affrontare la mia ultima rottura sentimentale qualche anno fa, ho trovato molto conforto in quelle canzoni, perchê mi ricordavano che, anche se quella storia era finita, l’amore continuava a esistere e forse un giorno l’avrei ritrovato. Ed è esattamente ciò che è successo: sono stato fortunato a conoscere la mia attuale partner tre anni fa, ci siamo innamorati e fra noi è meraviglioso. Tempo dopo sono tornato ad ascoltare Vespertine e mi ha ispirato moltissimo nello scrivere canzoni sull’amore. Grazie a quel disco di Bjork ho capito che ci sono così tanti modi di scrivere brani d’amore, al di fuori dei soliti cliché. Quindi sì, quello è stato un disco estremamente catartico per me. 

Ho letto che ti stai trasferendo da Londra ad Atlanta. Rimarrai a vivere negli States in pianta stabile quindi?
Sì è vero, al momento sono ancora a Londra per via del lockdown, ma non appena potrò mi trasferirò lì. La mia partner ha vissuto un anno qui a Londra, ma il suo visto è scaduto ed è tornata a casa sua ad Atlanta. Quindi è tempo per me di seguirla per  ricongiungerci. Vivrò un po’ lì e vedrò come mi trovo.

ph: Netti Hurley

A proposito del lockdown, per te psicologicamente come è stato? 
È stato un po’ come essere sulle montagne russe. Ci sono stati momenti dove ero addirittura felice di trovarmi in questa solitudine, per poter riposare e prendermi cura di me stesso senza dover correre a destra e manca ed affannarmi nella solita routine di tutti i giorni. Ma ci sono stati anche momenti di ansia. Non direi che soffro di ansia regolarmente, ma mi è capitato di avere degli attacchi in passato e penso che soprattutto all’inizio, quando ancora nessuno sapeva bene a cosa stessimo andando incontro, quell’incertezza, quel non sapere, quello è stato sicuramente spaventoso, ma allo stesso tempo è stato molto utile per me per tornare a lavorare sull’album completamente da solo, dopo averci lavorato per diverso tempo con altri amici. Quindi è stato un momento speciale in un certo senso.

Ascoltando il tuo disco, si sente subito che la tua musica è frutto di moltissime influenze: dalla sopracitata Bjork, ai Radiohead, passando per Jeff Buckley, Elliot Smith e al lavoro solista di John Frusciante. Così come sono evidenti gli influssi della cultura black. Potresti dirci qualche nome che per te è stato fondamentale?
Personalmente ritengo che le persone di colore abbiano  fatto piú di chiunque altro nella popular music. Devo molto alla cultura black. Fra i miei artisti preferiti sicuramente ci sono: D’Angelo, Alice Coltrane, Dorothy Ashby, il sassofonista Don Byas, e Sade che ho ascoltato tantissimo mentre stavo componendo questo disco. Così come Donny Hathaway, che è stata fondamentale per me. Il soul è probabilmente il mio genere musicale preferito in assoluto, anche se poi in realtà ascolto di tutto.

In Sheets - una delle tue canzoni più intime dell’album - hai campionato un sample tratto dalla colonna sonora del capolavoro di Michel Gondry Eternal Sunshine of the Spotless Mind . Ci sono altri film che ti hanno aiutato ad affrontare momenti difficili?
Quello è un film meraviglioso, non è vero? È sicuramente fra i miei film preferiti. Probabilmente un altro sarebbe A Single Man di Tom Ford: quando l’ho visto per la prima volta, ero in una fase in cui non riuscivo ad abbattere certe barriere, e grazie a quel film sono riuscito a piangere di nuovo, dopo tantissimo tempo.

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Ah bellissimo quel film!
Vero? Così elegante…

Così com il successivo film di Ford Animali Notturni.
Non l’ho ancora visto! 

Devi assolutamente, è veramente un gran film.
In effetti me lo posso guardare questo weekend, grazie per il consiglio! 
Un altro film importante per me è stato Moonlight di Barry Jenkinsveramente meraviglioso, con un messaggio così forte riguardo la mascolinità tossica e la propria crescita. Ovviamente ci sono alcune tematiche che io non ho mai dovuto affrontare, ma molti aspetti di quel film hanno avuto un impatto su di me. E poi c’è una cosa che hanno in comune tutti questi film: una grande colonna sonora. Adoro i film con della buona musica.

Durante il tuo processo creativo ti sarai ritrovato a fare i conti con il fatto di essere cresciuto in una società dove la mascolinità tossica è presente. Fortunatamente pian piano le cose stanno migliorando. Qual è la tua esperienza in merito?
È veramente incoraggiante vedere il cambiamento in corso. Sono stato sempre molto fortunato nell’avere un padre che è sempre stato molto disponibile emotivamente, così come i miei amici più cari. E anche per il fatto di essere stato in contatto con molti musicisti per gran parte della mia vita: la maggior parte di loro sono molto sensibili, e decisamente non tossici. Poi ovviamente ci sono anche persone di quel tipo nell’industria musicale, che hanno paura di esprimere i propri sentimenti. Ma vedere che è un processo in atto in tutto il mondo è fantastico, anche se purtroppo sta succedendo così tardi. Ma meglio tardi che mai.

Sembra proprio che a Londra adesso la scena jazz/lo-fi stia rifiorendo: penso a giovani artisti come te, Oscar Jerome e Louis VI. Tu come la vedi?
È strano, perchè vedo questa scena come se fosse già finita in un certo senso… siamo cresciuti tutti insieme, facendo musica  e suonando gli uni con gli altri. Era una comunità bellissima quella che c’era a South London e farne parte ti teneva ispirato. Intorno al 2016 la stampa se n’è accorta, ma in un certo senso era già troppo tardi e il movimento si stava già dissolvendo. Hai citato Oscar, è da un po’ che non lo vedo, ma sta facendo grandi cose con il suo nuovo album. Una volta non vedevamo l’ora di fare musica, pur non avendo ancora una carriera. È strano, perchè sembra che il culmine della scena ci sia già stato, e ora tutti gli artisti che ne facevano parte si stanno realizzando individualmente molto più di quando si faceva parte di quello che era un piccolo collettivo. Sono molto orgoglioso di tutti questi musicisti.

Per un po’ di tempo non si potrà tornare in tour e di conseguenza il live streaming è l’unica opzione al momento. Che cosa hai in serbo per il tuo show dell’11 Febbraio?
Ci ho riflettuto e sapevo che non volevo fare un live con una webcam nella mia cameretta dove la qualità dell’audio è scarsa. Voglio che le persone che mi vedono esibirmi abbiano un’esperienza per quanto possibile speciale, e non solo lo-fi. E quindi siamo andati in questo edificio che per poco non era andato completamente distrutto da un incendio e abbiamo girato questa sorta di concept live dove suono canzoni sia vecchie che nuove. È quasi un’ora di live con questa incredibile scenografia. Spero che i fan apprezzino.

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Ti chiedo scusa per la domanda banale che sto per farti, visto che te l’avranno fatta due milioni di volte, ma non sono riuscito a trovarne traccia sul web: qual è l’origine di Puma Blue?
[ride] Da ragazzino suonavo spesso in giro i usando solo il mio nome proprio. Ogni volta che mi ingaggiavano per una data, finivo stranamente sempre in serate dove si esibivano solisti folk. Di conseguenza il target del loro pubblico non era esattamente il mio. [ride] E quindi ho pensato che avrei avuto bisogno di un nome d’arte, per evitare queste situazione. Allo stesso tempo, però, sapevo di non volerne uno che suonasse come quello di una band, perchè se no avrei avuto lo stesso problema, ossia mi avrebbero ingaggiato per serate rock. È quindi la chiave è stata saper trovare una via di mezzo. Mi sono reso conto che i bluesman del Delta avevano tutti questi bellissimi nomi d’arte quasi da supereroi: Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Memphis Minnie. Potrebbero essere nomi di persona, ma allo stesso tempo hanno quel non so che da supereroe tipo spider-man. E quindi volevo trovarmene uno simile per me. Ho pensato che blue era una parola in cui mi rispecchiavo molto: un po’ per la natura malinconica della mia musica in quel periodo, un po’ perchè sono sempre stato attratto dall’acqua, e perchè i miei occhi sono blu. È stato un po’ come dover dare il nome ad un figlio: ora che avevo il cognome mi serviva solo il nome proprio. Dato che Blue era questa parola molto mutevole e nebulosa come l’acqua, l’altro nome sarebbe dovuto essere più fisico: e quindi ho pensato che Puma, un sinuoso felino, sarebbe stata un’ottima associazione. Non ci ho dovuto riflettere più di tanto e l’ho scelto. Probabilmente oggi non lo sceglierei ad essere sincero! [ride]

ph: Netti Hurley