Un disco urgente e sanguinolento. Questo è DPCM del giovane cantautore Visconti, che canta di una provincia decaduta, in cui i rapporti umani sono inquadrati in una cornice post-apocalittica. Un equilibrio semi-stabile quello portato avanti in DPCM, che miscela incursioni post-punk al cantautorato italiano sghembo, in cui le contaminazioni di rabbioso e poetico danno vita ad uno stile molto personale.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Visconti e ci è parso da subito un paroliere con del potenziale incredibile: è quando hai qualcosa da raccontare e lo sai fare anche con una certa capacità che ti distingui dagli altri e il giovane cantautore piemontese ha tutte le carte in regola per fare il grande salto.
Tempo al tempo. Ma intanto segnatevi questo nome e ascoltatevi Ammorbidente: ne varrà la pena.
Ho notato che hai una tendenza a citare spesso artisti: mi viene in mente Dalì in La morte a Venezia o Picasso in Narcisi sbagliati, ma anche Thomas Mann… questi artisti sono una delle tue fonti d’ispirazione non musicale?
In realtà è un approccio molto particolare quello che ho con gli artisti: la mia preparazione è stata sempre molto scolastica. Ho fatto un liceo scientifico e un anno universitario di filosofia. Avrei potuto e voluto poterli raggiungere studiando le varie dottrine più specificatamente, apprezzarli fino in fondo, anche quelli puramente visivi. Andando avanti, comunque, penso che più passa il tempo, più ritengo che quello che mi appassiona siano le biografie di questi artisti: la loro storia, i valori che rappresentano. Citando un nome, riesco a sviluppare determinati colori e tonalità ai quali li associo; anche inconsciamente.
Il disco è stato prodotto da Giulio Ragno Favero, ex Teatro degli Orrori: com’è stato collaborare con lui in questa veste “innovativa”?
Molto interessante. Ho sempre ascoltato il Teatro degli Orrori e ho potuto vedere Giulio da una prospettiva diversa. Il suo approccio con la musica e le tecniche di registrazione ha aiutato perfino i miei studi ed è stato bello guardarlo lavorare. È stato propedeutico per quello che vorrei fare un giorno. Poi, il rapporto è stato molto tête-à-tête, io e lui in studio, fine. Poco dispersivo e polarizzato e tanto dialogo con storytelling delle nostre esperienze e punti di vista. Parlare dei brani non solo dal lato tecnico, ma soprattutto artistico: mi ha aiutato tantissimo.
Il disco è uscito a marzo 2022, esattamente dopo due anni i famosi DPCM: l’album è stato realizzato proprio in questi due anni oppure ci sono pezzi che avevi già composto in precedenza?
In realtà sono stati scritti tutti durante il lockdown. Essere chiuso in casa è stata una spinta propulsiva, soprattutto il potersi concentrare meglio su certe dinamiche. Ero in casa, con gli strumenti dei componenti della mia band precedente e la mia esigenza di comporre brani e l'ambizione di misurarmi con degli strumenti che non mi appartenessero nella loro interezza, mi ha portato a voler imparare a suonarli e registrarli. È stato tutto, quindi, molto concentrato, in un'atmosfera strana, di incertezza. È stato comunque molto salubre, perché da un lato non mi ha portato aspettativa rispetto a quello che stavo scrivendo, ma c'era l'intenzione che si trattasse di una cosa autentica che potesse divenire reale post-lockdown.
In DPCM canti: “Vivere a vent’anni chiuso in casa”, "Uno ai tre mesi di università da casa", "Un nuovo concetto di socialità". Come hai vissuto (e stai vivendo) questo periodo di emergenza?
La pandemia ha contribuito molto a guardare cose che davamo per scontate, in una prospettiva diversa. Dai più semplici rapporti umani (i famosi congiunti!) alla riesamina di rapporti. Il lockdown ha perfino amplificato molti rapporti che avevo, che, vuoi o non vuoi, sono stati fonti d'ispirazione primaria. È stata più un'atmosfera generalizzata che mi ha portato dove sono ora.
Soprattutto dal tuo punto di vista di artista emergente, le chiusure forzate hanno mutato il tuo percorso che ti eri posto pre-pandemia?
Prima avevo un altro progetto musicale: una band che aveva prospettive musicali che, per certi versi, erano più scontate. Soprattutto la grande differenza era che scrivevo, al tempo, testi in inglese. La pandemia mi ha aiutato a scrivere in italiano, che ho sempre trovato una lingua un po' scomoda per scrivere testi perché spesso è più diretta di altre internazionali. Ho sentito poi proprio l'esigenza di fondo di scrivere con la propria lingua natìa, che ha una potenza maggiore rispetto a una che conosci meno.
Ti abbiamo scoperto con Sotterranei Live Session in Tuci quando hai cantato una cover di Persone di Vetro dei Post Nebbia: hai mai pensato ad una collaborazione con Carlo e soci?
A me piacerebbe tantissimo. Sono molto felice di essere sotto Dischi Sotterranei perché nella mia vita era arrivato il momento di fare breccia con la musica italiana. È stato il punto di contatto tra musica internazionale, innovazione e italiano. Personalmente Carlo dei Post lo ammiro perché ha un rapporto molto intenso e intimo con la musica; la sua visione è molto chirurgica. Il bacino sonoro più psichedelico che magari si nota meno in DPCM e più nei lavori dei Post Nebbia fa comunque parte dei miei ascolti quotidiani... un feticcio che coltivo spassionatamente. Dietro l'aggressività del post punk si nasconde un nerd di musica prog... anche se non fuoriesce espressamente!

Ho letto che avevi fondato dei progetti musicali in inglese ai tempi del liceo: nell’attuale Visconti che ha pubblicato il suo primo album in italiano, cosa ritroviamo del background inglese?
Sì, soprattutto a livello musicale. Influenze timbriche e atmosfere sonore. In casa, si ascoltava sempre post punk, anche in modo più leggero (perché forse ho preso derive più oscure!). Per i testi l'influenza resta comunque quella italiana, cantautoriale, stile Paolo Conte e Franco Battiato; sempreverdi della mia vita musicale e non.
I tuoi genitori hanno influito nell’indirizzarti verso alcuni generi piuttosto che altri?
In realtà potrei dire per certi versi di sì, con David Bowie, U2, Joy Division... ma ho cominciato ad apprezzarli in un secondo momento. L'inizio è stato molto da solo: ragazzino alla chitarra che a sei anni inizia ad ascoltare Led Zeppelin e Deep Purple. L'aver sbloccato l'utilizzo di mezzi stile YouTube, mi ha permesso di costruirmi con più facilità un percorso musicale mio, che non fosse influenzato da genitori o amici, con i quali difficilmente condividevo la mia musica. Fin da piccolo ho da sempre scritto: mettere insieme tre accordi è una cosa che da sempre mi fa stare bene, ma non sapevo, al tempo, ancora dargli ancora una forma esatta.
Ho apprezzato molto la chiusura del disco con Nulla mi urterebbe più: intanto, è stata messa come ultimo pezzo per qualche ragione in particolare?
A livello tematico, il disco parte dalla frustrazione della pandemia, ma arriva alla condizione più personale del rapporto tra me e mio padre, che porta, quindi, ad un livello più introspettivo. Molti pezzi li ho scritti durante questo periodo di lockdown quando frequentavo in Svizzera, a Lugano, l'università. Tutto questo mi ha formato e ho capito che nonostante il mio amore spassionato per le materie umanistiche, non ero forse così dotato per indossare il camice bianco dell'austerità filosofica... e soprattutto mi sono scontrato con l'esperienza all'estero, con un rapporto con le persone molto differente da quello italiano, seppur a pochi chilometri di distanza dal confine.
Quando dico tra noi due l’unico argomento rimasto è la mia università non è un fatto esattamente negativo, quando più un paradosso: discorsi di fuga, ecco...
Siccome citi spesso l’università, ti chiedo cosa tu studi e in che modo bilanci il tuo tempo da artista e quello da studente, perché mi sembra un equilibrio complesso da gestire…
Studio sound design allo IED a Milano. Per la prima volta mi sento che lo studio non mi pesa per nulla e che integra la mia esperienza da artista. Si miscelano spesso studio e lavoro, sia tecnicamente che concettualmente: un discorso molto ampio che spero di arricchire continuativamente nei miei brani e nella mia musica.