Ci sono band che sembrano destinate a spaccare il mondo e che poi però si perdono per strada. Sembrava il caso degli Amazons, saliti alla ribalta con l’omonimo esordio e il successivo Future Dust e con un terzo disco che non era riuscito ad alzare l’asticella della band, anzi, probabilmente l’aveva pure abbassata. Con 21st Century Fiction invece Matt Thomson e soci (rimasti orfani del batterista) sono riusciti a calare l’asso dalla manica e scrivere quello che è probabilmente il loro album migliore. Un disco che ha una coesione tematica, un concept solido alle spalle, pur esplorando diversi territori sonori, ma pur sembre ben ancorati all’alternative rock. In questo senso, contare sul supporto dei Royal Blood, con cui hanno scritto e registrato My Blood, è stata sicuramente una marcia in più per la band inglese. Il frontman Matt Thomson è una persona riflessiva ed estremamente ambiziosa, e questo emerge non solo nelle sue canzoni, ma anche nelle sue parole in questa intervista.

Avete scritto probabilmente il vostro miglior album finora, l’aver dovuto accettare l’uscita dal gruppo del vostro batterista vi ha spronati a voler fare ancora meglio?
Grazie, è una cosa di cui siamo convinti anche noi: questo album ha finalmente raggiunto il livello delle nostre ambizioni creative. Gli ultimi tre dischi mi avevano fatto lasciato un po’ freddo dopo le rispettive uscite, ho imparato ad amarli solo col tempo per via dei loro rispettivi meriti. C’era però sempre questa sensazione di incapacità nell’eguagliare le nostre stesse aspirazioni... Con 21st Century Fiction invece sono convinto che ce l’abbiamo fatta e siamo addirittura andati oltre le nostre aspettative. Per quanto riguarda la decisione di Joe di uscire dalla band, devi sapere che nell’ultimo periodo lui era una sorta di fratello maggiore per tutti noi: era qualche anno più grande del resto della band ed era entrato negli Amazons che aveva già una vita stabile, con un appartamnto suo, un lavoro e un mutuo. La sua esperienza ci ha aiutato molto per i primi tre album: quando se ne è andato ha lasciato un vuoto che noi tre abbiamo dovuto colmare. Siamo stati costretti a fare un passo avanti e a prenderci ciascuno nuove responsabilità all’interno del gruppo. C’è stato davvero un momento in cui ci siamo detti che per funzionare sarebbe stato ora o mai più.
Per il tour immagino avrete un turnista alla batteria.
Con noi ci sarà George Le Page, è più di un turnista ed è un nostro caro amico da tanto tempo. Le parti di batteria del disco le ha registrate lui. Sarà con noi per il tour e nell’immediato futuro.
Al prossimo album quindi potrebbe entrare in pianta stabile come membro ufficiale della band?
Chi può dirlo, vediamo come va. Fare parte di una band non significa solo stare insieme su un palco. Ci sono molti elementi da prendere in considerazione e penso che in questo momento ci troviamo bene con la situazione attuale, di soli tre elementi. Alla fine è come era agli inizi, dato che noi tre suonavamo insieme già prima del 2014, anno in cui si era unito a noi Joe. Per noi è stato un ritorno al passato. Ma vedremo che succederà in futuro.

21st Century Fiction è un titolo molto forte, aperto a molteplici interpretazioni. Quanto è stato importante partire da questo per la creazione dell’album?
È divertente perché quando abbiamo iniziato a rilasciare le interviste per questo disco mi ero preparato una lista di tutte le cose che il titolo significava per me. Ma la cosa migliore è stata sentire le interpretazioni delle altre persone. Perché solo lì mi sono reso conto di quante interpretazioni potesse avere: ho imparato più dalle altre persone che non da me. È stato bello sentire le interpretazioni di giornalisti e fan.
Questa volta volevo un titolo audace e provocatorio da cui partire, a differenza di tutte le altre volte, in cui prima finivamo le canzoni e poi alla fine raffazzonavamo insieme un titolo. Volevo che in questo fosse l’inizio di una discussione che durasse non solo per la durata del disco, ma per il resto delle nostre vite: alla fine moriremo tutti nel Ventunesimo secolo. Ci dobbiamo fare strada nella miriade di narrazioni diverse: quelle raccontate dalla società, quelle che ci raccontiamo noi stessi per farci sentire meglio e quelle che invece dobbiamo ai nostri fan sui social media. È soprattuto lì, quando scrolli, che ti rendi conto che una tua verità incrollabile magari è una pure menzogna per qualcun’altro. Viviamo in un periodo storico molto polarizzante, o la pensi così o non la pensi così.
Ci sono state diverse prime volte per voi con questo album: ad esempio so che non avete fatto ascoltare a nessuno dei vostri amici e parenti le vostre demo.
È stata una sfida che ha definito la scrittura di questo album. Ci siamo resi conto grazie alla nostra esperienza che se fai affidamento a pareri esterni, allora non rischierai mai e farai qualcosa di noioso in cui nemmeno ti ci puoi riconoscere. E questo è quello che è successo col nostro terzo album: amo quel disco, ma non ci ritroviamo in esso. A questo giro invece è stato diverso, nessuno dei nostri amici o familiari ha sentito nulla prima che fosse finito. Non mi fidavo di me stesso, perchè adoro il brivido quando suoni una demo ai tuoi amici o alla tua ragazza e ti dicono “wow, questo pezzo è incredibile!”.Quindi poi rischi di autoconvincerti che la demo vada bene così e finisci per non dare il massimo. A questo giro, se non trovavo una seconda strofa di un pezzo, ci dovevo sbattere la testa e solo dopo, una volta finito tutto, potevo farla sentire agli altri. La vera forza sta nel fare ascoltare a qualcuno qualcosa, sentirti dire che non gli piace, e rispondergli “fa niente, non mi importa. A me piace!”. È stato un processo durato circa due anni, molto faticoso, ma è stato fondamentale per trovare la nostra formula, anche per il futuro.
Il fatto che siate passati da una major a un’etichetta indipendente vi ha aiutati in questo?
Sì, molto. È stato un altro tassello che ci ha imposto di assumerci ulteriori responsabilità nelle nostre vite. Avevamo un contratto per tre album con la Fiction Records (etichetta controllata dalla Universal, ndr) che è stato onorato, e sono certo che abbiamo accumulato una bella spesa (ride, ndr). Abbiamo imparato molto e non avremmo potuto scrivere 21st Century senza questi anni passati con loro. La gente spesso non capisce che ci vuole esperienza, bisogna sbagliare e imparare dai propri errori. Che poi non devono essere necessariamente errori, magari anche strade che semplicemente non portano da nessuna parte. Penso, come del resto hai detto tu, che questo sia il nostro album migliore e non è nato dal nulla. Devi imparare ad avere una visione e realizzarla. La Fiction Records è stata l’etichetta giusta al momento giusto per noi. Sapevamo quello che volevamo fare con i successivi due album e ci serviva solo il loro supporto e i loro soldi per fare un bel lavoro.

Quanto è stato importante poter contare sui consigli di Mike Kerr dei Royal Blood?
È stato importantissimo. Abbiamo conosciuto i Royal Blood suonando a un festival in Spagna, a Bilbao nel 2017. Da allora siamo diventati amici, e con Mike ho legato molto soprattutto durante il Covid, eravamo tutti e due in lockdown a Brighton. Passeggiavamo insieme e chiacchieravamo tantissimo. È uno dei pochi musicisti che posso chiamare al telefono e finire per passarci le ore a parlare. Lui ha sempre aneddoti interessanti, sono quasi sempre io che faccio domande per sentire le sue opinioni. Parliamo di tutto, musica, creatività, arte… Lui ha davvero una mentalità aperta quando si parla di queste cose, il suo modo di lavoro e la sua visione non sono state alterate minimamente dalla fama e della ricchezza. Non è quello che lo spinge a fare musica. Con lui non si tratta di avere grossi piani come “suoneremo a Wembley un giorno!”, non è il modo in cui pensa lui. Quello è il modo in cui penso io, quando avevo 11 anni dicevo ai ragazzi: “dobbiamo dare il massimo e un giorno avremo vasche idromassaggio e jet privati” (ride, ndr) Ma questo è il tipo di cosa che non ha mai motivato Mike: a lui non gliene frega niente. Quando fa uscire un album è solo perchè è la forma più pura della sua espressione artistica. Questa cosa è stata essenziale per me, per capire cosa sia importante per creare grande musica.
E in studio insieme invece come è andata?
È cominciata con me che gli ho girato letteralmente tutte le nostre demo per fargliele ascoltare. Ha scelto My Blood, ha iniziato a modificarla e a inviarci la sua di demo e a noi è piaciuta subito tanto. Siamo stati tre giorni nel suo studio nel Sussex e ci siamo divertiti molto. È un gran produttore, ha fatto un lavoro incredibile. E Ben Thatcher è semplicemente un batterista fenomenale, da blockbuster! Uno dei migliori al mondo. Ha un sound incredibilmente distintivo, la sua tecnica è incredibile e pesta la batteria in un modo che non ho mai sentito prima. Probabilmente la persona vivente che più si avvicina a John Bonham degli Zeppelin.
Il complimento più alto che si possa fare a un batterista.
Oh sì, penso che sia un fenomeno. E la sua musica parla per lui.
I Royal Blood dal vivo sono davvero potenti, ogni volta ti fanno stupire del fatto che siano solo in due.
Sì, sono dei fenomeni, la loro è la più pura distillazione del rock. Non vedo l’ora di sentire cosa faranno per il prossimo album!

Poco fa parlavi di come hai imparato a focalizzarti sulle cose davvero importanti, senza stare tanto a pensare ai sogni di grandezza. Ce li hai ancora quei pensieri?
Ottima domanda. Una delle cose belle di far parte di una band ed essere artista è che hai la licenza di sognare in grande. Non ho mai voluto e permesso che nessuno ostacolo della vita si contrapponesse fra noi e i nostri sogni. Bisogna sempre sognare in grande. Abbiamo suonato a San Siro con i Muse e il percorso per tornare lì un giorno sarà pieno di incredibili avventure… perché dovrei precludermelo?
Chiaro. Ma non temi di raggiungere questi obiettivi e sentirti comunque irrealizzato? Un desiderio nè comporta sempre un altro, e così all’infinito…
Sì hai ragione, ma credo nel rock 'n' roll e nel raggiungere qualcosa che sia oltre l’orizzonte. La seconda parte di 21st Century ha uno spirito molto americano, alla Over the Rainbow, con la terra promessa, il sogno americano e tutto il resto. Penso che la musica rock, per sua natura, vada molto in quella direzione ottimistica e ambiziosa. È invevitabile. È anche la mia visione della musica, per me dev’essere sempre ambiziosa, che porti a tante aspirazioni che possono assumere forme diverse: che sia un incredibile doppio album o un concerto con l’orchestra dal vivo. Finchè ci sono infinite possibilità voglio poterle perseguire tutte. Non so se questa sia una mentalità che possa funzionare anche in questi anni ‘20, ma ormai non riesco a farne a meno! (ride, ndr).
Siete maturati tantissimo anche a livello di scrittura. In questo album si nota molto come tutti i testi siano molto più a fuoco rispetto al passato, con canzoni con storie come quella in Joe Bought a Gun. Hai cambiato qualcosa nel tuo approccio alla scrittura?
Penso che il motivo per cui questo album funzioni e si distingua dagli altri nostri lavori è che ho trovato la mia voce. Ho trovato qualcosa di cui volevo veramente parlare. Non è una cosa che mi veniva naturale prima, quella di sapere di cosa scrivere, non ero certo della mia visione del mondo e penso che questo si noti nei nostri tre album precedenti. Non c’erano temi forti, c’era un po’ di questo e un po’ di quello, cose che comunque pensavo potessero funzionare, anche se personali: come quando mi sono lasciato con la mia ragazza dell’epoca durante il primo album.
Joe Bought a Gun parla di un amico che, per via di problemi di ansia e varie paure, è diventato un’altra persona rispetto a quella che conoscevo. Abbiamo tutti amici di infanzia che negli anni sono cambiati moltissimo e che non riconosci più. Durante un firmacopie, un fan, mentre gli autografavamo il disco, ci ha chiesto se Joe fosse quello della canzone di Jimi Hendrix. E ho pensato che fosse proprio una bella interpretazione. Amo Jimi Hendrix da sempre, e mi piace che si crei un legame indiretto con un brano uscito quasi 70 anni fa. È quello che il rock n roll dovrebbe fare: non ci dobbiamo dimenticare del passato, perché da quel gigantesco ombrello sono nati una miriade di sottogeneri e nuovi generi che ascoltiamo oggi. Non bisogna lasciar spegnere quella fiamma, ma alimentarla e portarla avanti.

Ti senti ancora un outsider, facendo parte di un movimento considerato in estinzione?
Bella domanda... L’alternative rock o l’indie, o come diavolo lo vogliamo chiamare nel 2025, ha ancora delle band molto fighe. Non so come sia la situazione in Italia a riguardo, ma qui grazie alla scena post punk ci sono gli Idles, i Fontaines D.C.: probabilmente sono la vera voce distintiva di questi anni. Penso ci sia spazio per molto altro e penso che gli Amazons debbano aspirare a cose di questo tipo. Sono convinto quando dico che meritiamo di essere considerati di più nella scena alternative. Abbiamo un’occasione d’oro: viviamo in un periodo di grandi incertezze e frustrazioni, e gli strumenti che le rock band hanno a disposizione sono fatti per epoche storiche come questa. Vorrei vedere più gruppi sfruttare il momento a proprio vantaggio.
E come vedi invece il nuovo predominio del pop e di altri generi nelle lineup dei festival?
La carica e lo sfogo che il rock offre non te lo dà nient’altro. È un peccato vedere sempre meno band nei festival, questi grandi eventi sono nati grazie alle chitarre. Il rock è profondamente legato all’identità di un festival in un modo in cui la musica pop forse non riuscirà mai. Non c’è spontaneità, non c’è quella ruvidezza, quell’improvvisazione, quella ribellione. Vedi uno show pop esattamente come lo vedresti dentro a un palazzetto o a uno stadio. Allo stesso tempo non possiamo avere la presunzione di avere gli slot garantiti al festival solo per il genere che facciamo. La musica deve essere davvero la colonna sonora della vita delle persone che vengono a vederti. Deve giustificare la sua esistenza nel 2025.
Tornerete quest’estate in Italia in apertura ai Queens of the Stone Age. Sarà la vostra prima volta. Sarete molto emozionati di aprire dei vostri idoli.
Sì, i QOTSA sono dei maestri! Noi siamo gli studenti. Poter aprire i loro concerti è una di quelle voci che potremo spuntare dalla nostra lista dei desideri. Li abbiamo visti tante volte dal vivo, ma farlo così sarà sicuramente molto diverso e cercheremo di imparare quanto più possibile. Non vediamo l’ora di fare un’esibizione che attiri la loro attenzione, voglio che gli facciamo alzare le sopracciglia e creiamo una scintilla da cui possa nascere una conversazione. Conosciamo Mickey Shoes (Michael Shuman, il bassista dei QOTSA, ndr) e abbiamo fatto un paio di date con la sua band, i Mini Mansions. Sarà bello riconnettersi con lui. Così come lo sarà tornare in Italia per suonare, ci era dispiaciuto molto non suonare all’AMA Festival lo scorso anno (la data era stata annullata all’ultimo a causa di un’ernia a Josh Homme, che poi si era esibito stoicamente il giorno dopo agli I-Days Milano, ndr). Non vediamo l’ora, l’Italia è il nostro paese preferito in Europa, abbiamo sempre avuto un supporto incredibile dai fan. Sarò sincero con te: vorremmo trasferirci lí da voi e ricominciare una vita lì! (ride, ndr)

Gli Amazons torneranno in Italia per due date in apertura ai Queens of the Stone Age:
15 luglio @ AMA Music Festival, Romano d'Ezzelino (VI);
16 luglio @ Pistoia Blues Festival;
Biglietti disponibili qui.