25 luglio 2019

Il ritorno spumeggiante dei Vampire Weekend sul suolo italiano

«When I was 17, I had wrists like steel / And I felt complete» cantava Ezra Koenig nel 2010 in Contra. Da allora la vita mi ha regalato solo gioie offuscate, spente lentamente come MTV Italia, che nell’estate dello stesso anno mi rallegrava trasmettendo a rotazione il videoclip di Holiday, la canzone che ha fatto conoscere i Vampire Weekend al pubblico italiano, sebbene con due anni di ritardo. Il 2010 fu anche l’anno in cui si esibirono per l’emittente americana a Torino in un live in 3D, una novità che fece scalpore. Molto rumore, poi il nulla: cadde un silenzio assordante, persino dopo l’uscita dell’acclamatissimo Modern Vampires of the City, vincitore di un Grammy Award come Best Alternative Music. I ritmi dei Vampire Weekend, espressione di una giovinezza colorata e spensierata, erano diventati monotoni ai non più piccoli veterani, ormai immersi nel gioco grigio e pericoloso dei grandi.

«I veri paradisi sono quelli che abbiamo perduto», scrisse Marcel Proust a ricordo del benessere a cui l’uomo tristemente rinuncia. Talvolta però, i percorsi impervi possono risultare pianeggianti alla fine. Non è capitato per i Vampire Weekend, che tra progetti esterni e cambi repentini di programma hanno pubblicato Father of the Bride dopo sei anni di pausa. È un album ambiziosissimo in cui si concentrano motivi sacri e profani, a cui fa da cornice quello spirito impertinente da inguaribili fanciulli che mai a loro diverrà obsoleto perché, come hanno affermato gli organizzatori della tappa milanese dell’attesissimo tour della band newyorkese, «serve molto tempo per diventare giovani, ne serve ancora di più per essere e rimanere ancora i più bravi di tutti». Forse è stato questo il campanello di allarme che ha spinto i vecchi contra a riunirsi al circolo Magnolia sotto un cielo minaccioso il 9 luglio 2019. Armata di borraccia con motivi spaziali e k–way rosso fuoco, sembravo una goonie in attesa di vedere le gemme più preziose di Willie l’orbo. C’erano accanto a me tantissimi coetanei: chi lo sa, probabilmente anche loro hanno pensato, mentre attendevano le 21:00, «sto aspettando questo momento da nove anni, quando ancora ero minorenne e a malapena distinguevo la destra dalla sinistra». Volevamo semplicemente tornare piccoli per due ore e mezzo, la pioggia non ci avrebbe fermato per alcuna ragione.

Ma a volte i miracoli esistono, la nuvoletta di fantozziana memoria aveva deciso di disturbare altri milanesi acquisiti. Anche i sette componenti dei Vampire Weekend, saliti sul palco sulle note di Chasing Sheep Is Best Left To Shepherds di Michael Nyman, sono rimasti increduli del loro straordinario potere, quello di trasformare una città nebbiosa di lamiere e cemento in una spiaggia caraibica avvolta dalle palme. Abbiamo ballato disinibiti il flamenco di Sympathy, un inizio dirompente che ha dato il La ad un live scoppiettante in cui la band ha tenacemente osato senza mostrare segni di cedimento. L’entusiasmo è salito alle stelle quando Koenig ci ha rivolto la parola dicendo timidamente: «È da quasi dieci anni che non suoniamo in Italia, nel frattempo sono usciti quattro album!». La festa era appena cominciata. Non c’è stato alcun momento smorto: se non si saltava con le braccia tese all’aria si accoglieva ogni attacco o accordo introduttivo con un sonoro boato. Il pubblico milanese aveva studiato, ha gradito senza storcere il naso i nove brani scelti da Father of the Bride: canticchiava sorridente le parti strumentali di Sunflower, ha risposto ai cori di How Long? e Jerusalem, New York, Berlin, l’intima conclusione prima dell’encore, quasi teletrasportati ad una messa cantata in una religiosa compostezza.

Chi scrive è spudoratamente di parte, ma non è la prima persona che definisce la tappa milanese memorabile, «so unnatural / Peter Gabriel too», quasi una replica aggiornata dell’iconico live al Roseland Ballroom del 2013: il könig Ezra con i suoi sandali scuri da frate francescano, il ballerino dalle mille pose aggraziate Chris Baio, il gigante buono Chris Tomson nascosto da una grancassa decorata con un disegno di una rana stilizzata, il quartetto di professionisti Brian Robert Jones, Garrett Ray, Greta Morgan e Will Canzoneri hanno saputo giostrarsi su un palco sconosciuto senza timori, con una vasta raccolta di impeccabili trovate sonore, proponendo alcune rivisitazioni di brani celebri o cover attraverso assoli, accompagnamenti, intro e outro. Quel segmento di Son of a Preacher Man di Dusty Springfield in mezzo a Obvious Bicycle ci ha fatto girare la testa, mentre la versione più analogica di NEW DORP. NEW NEW YORK. (precisiamo per i meno esperti: è stata scritta da Koenig, è sua e di SBTRKT, non è una cover) ha ribaltato la mia antica avversione per essa, grazie alla sua composita esecuzione: si tratta di un groove incalzante accompagnato da tamburi che in una prima fase si evolve in una parentesi di corde tesissime che hanno il loro culmine in un assolo classic rock; infine la canzone si riapre nuovamente nel groove per poi interrompersi improvvisamente. Non è stato un momento Ezra–centrico, bensì espressione di una inscindibile coesione tra band e turnisti, la cui figura non è stata accessoria ma significativa, ed è stata ricoperta da numerosi elogi durante il live.

Ricordiamo con piacere il gioco di scale acute che hanno introdotto White Sky, la chiusa estesa di Obvious Bicycle alle tastiere, le pedaliere variegate che si sono distinte per tutta l’esibizione, la versione alternativa psichedelica e punkettara Stoneflower che spunta alla fine di Sunflower, la sbarazzina Harmony Hall, il talk box adoperato nell’outro di 2021, la combinazione Run e Hannah Hunt, corrispettivamente madre e figlia all’interno del repertorio della band: l’una, movimentata e trascinante, un po’ messicana, ritmata da un campionatore, l’altra lenta e marina, eseguita in un’atmosfera accogliente a luci soffuse, con quell’epica pausa straziante che ci tocca il cuore poco prima di gridare in lacrime «If I can’t trust you then damn it, Hannah / There's no future, there’s no answer / Though we live on the US dollar / You and me, we got our own sense of time». E poi le intramontabili Cape Cod Kwassa Kwassa, Oxford Comma, e quella gran bomba che ha introdotto questo articolo, Giving Up the Gun. Non sono mancati omaggi all’Italia, Paese che piace tanto a Koenig, d’origine di Baio: Bambina, che contiene il «ciao, ciao, bambina» di Piove di Domenico Modugno, è stata suonata due volte.

A dodici anni dall’uscita del singolo di debutto Mansard Roof / Ladies of Cambridge, i Vampire Weekend vengono ancora tristemente etichettati come noiosi dopo alcuni ascolti. Ho già esposto il perché nel primo paragrafo: il beat allegro, marchio di fabbrica della band, risulta ostico a lungo andare, come se facesse fatica ad integrarsi con i problemi quotidiani. Eppure, quando li hanno osservati dal vivo, i più refrattari sono rimasti scottati da una scaletta bilanciata da perle rare e classici, infine sono stati travolti da un momento di puro delirio scandito dal trio Diane Young, Cousins ed A-Punk. Koenig ci ha promesso che tornerà presto con la sua band sul suolo italiano, l’attesa non sarà lenta e lancinante. State attenti: tra non molto quei vampiri che hanno finalmente ridato un senso all’indie degli anni Dieci conquisteranno il mondo a suon di bongos. Date a loro un’altra chance, non siate cupi e sdegnosi, è giunto il momento di rinverdire.Di seguito la scaletta della serata:

  1. Sympathy;
  2. Cape Cod Kwassa Kwassa;
  3. Unbelievers;
  4. White Sky;
  5. Holiday;
  6. M79;
  7. Sunflower (Stoneflower extended jam version);
  8. Run;
  9. How Long?;
  10. Bambina;
  11. Bambina;
  12. Unbearably White;
  13. Step;
  14. Horchata;
  15. NEW DORP. NEW YORK.;
  16. This Life;
  17. Hannah Hunt;
  18. Harmony Hall;
  19. Diane Young;
  20. Cousins;
  21. A-Punk;
  22. 2021;
  23. Jerusalem, New York, Berlin;

Bis:

  1. Obvious Bicycle (con l’interpolazione di Son of a Preacher Man);
  2. Giving Up the Gun (richiesta da una persona con il cappellino da baseball);
  3. I Think Ur a Contra (parziale – richiesta da un folto gruppo di persone);
  4. Oxford Comma (richiesta da una persona con il cappello alla pescatora);
  5. Worship You;
  6. Ya Hey.

 

Si ringrazia Elisa Hassert per le fotografie.