C’è sempre stata un’aura sfuggente intorno ai bar italia, quel tipo di band che sembra vivere più nei margini che al centro della scena musicale. Formatisi a Londra, i tre membri – Nina Cristante, Sam Fenton e Jezmi Tarik Fehmi – sono diventati in pochi anni un piccolo culto nella scena indie britannica, mescolando minimalismo sonoro, malinconia urbana e un approccio quasi performativo all’apatia. Provenienti dall’ambiente sperimentale e dalle performance art di fine anni 2010, i bar italia hanno costruito un linguaggio riconoscibile: linee vocali sussurrate, chitarre abrasive ma mai realmente rumorose, testi disillusi e una produzione volutamente spoglia, come se ogni canzone fosse registrata di nascosto in un appartamento londinese.
Dopo i due album pubblicati nel 2023 – Tracey Denim e The Twits, entrambi per Matador – la band ha continuato a lavorare a un ritmo insolitamente serrato. Quei due dischi avevano delineato un’estetica precisa: suoni grezzi, melodie che si sciolgono prima di diventare canzoni, una costante sensazione di urgenza trattenuta. In questo senso, Some Like It Hot arriva come il terzo atto di una trilogia non dichiarata, che però mostra chiaramente i segni di una stanchezza creativa. Prodotto ancora una volta in modo estremamente lo-fi, l’album sembra rinchiudersi in una forma che la band non ha più la forza di decostruire. Se Tracey Denim aveva il fascino dell’incompiuto e The Twits (qui la nostra recensione) una certa elettricità nervosa, Some Like It Hot appare statico, come se i bar italia si fossero innamorati della propria estetica più che della musica stessa. È un disco che suona “da bar italia”, ma senza la sorpresa o la tensione che rendeva i primi lavori vivi.

Sin dal brano d’apertura, Fundraiser, si percepisce una certa ansia di ripetizione. La canzone è costruita su un intreccio di chitarre scarne e un ritmo scomposto, tipico del loro stile, ma il risultato appare meno urgente, quasi programmatico. Dove un tempo il caos aveva il sapore dell’immediatezza, qui diventa un gesto calcolato. Marble Arch, con le sue linee vocali sdoppiate tra maschile e femminile, conferma la sensazione: le idee melodiche ci sono, ma restano intrappolate in una produzione che sembra voler nascondere più che rivelare.
bad reputation prova a introdurre una nota più abrasiva, ma la tensione si risolve in un suono compresso, senza dinamica. Cowbella, invece, è uno dei rari momenti in cui l’atmosfera si apre: la voce di Cristante si distende, il basso si fa più melodico, e la band sfiora – per un attimo – qualcosa di davvero evocativo. Ma è solo una parentesi. I Make My Own Dust ritorna subito a un minimalismo che suona più come pigrizia che come scelta estetica.
Il cuore del disco, però, arriva con la sezione centrale: Plastered e rooster incarnano perfettamente la condizione attuale dei bar italia. La prima è un mosaico di frammenti che non si incastrano mai del tutto; la seconda, forse la più riuscita del lotto, ha un andamento ipnotico che ricorda certi momenti di Tracey Denim, ma manca di quella crudezza emotiva che rendeva quel disco magnetico. La successiva the lady vanishes tenta un approccio più narrativo, con un tono quasi cinematografico, ma non riesce a costruire un vero climax: la canzone si dissolve prima di arrivare da qualche parte.

Lioness e omni shambles ripropongono il solito schema – riff frammentati, batteria meccanica, voci alternate – ma la mancanza di varietà rende l’ascolto faticoso. Solo verso la fine, con Eyepatch, la band ritrova un barlume d’intimità: qui il tono più contenuto, quasi vulnerabile, restituisce finalmente un’emozione autentica. L’omonima Some Like It Hot, che chiude l’album, cerca di sintetizzare le diverse anime del gruppo, ma il risultato resta sfocato, come un collage incompleto.
Il vero problema di Some Like It Hot è che non evolve né consolida. È come se i bar italia avessero perso la misura del loro stesso minimalismo. Il suono, invece di aprirsi, si richiude; i testi, invece di scavare, galleggiano. Dove Tracey Denim sembrava il diario di una generazione alienata, qui si ha la sensazione di un copia-incolla emotivo, un esercizio di stile privo di urgenza. La produzione, che in passato aveva un fascino ruvido e autentico, appare ora manierata: quella patina lo-fi, anziché comunicare intimità o vulnerabilità, sembra diventata un filtro estetico dietro cui si nasconde l’assenza di idee.
Anche sul piano tematico, l'album non aggiunge nulla di nuovo. L’alienazione, il disincanto e la malinconia restano centrali, ma vengono espressi senza la stessa profondità o tensione dei lavori precedenti. È come se la band avesse scelto di replicare la propria formula per timore di abbandonarla, finendo però per svuotarla di senso. Certo, non mancano momenti in cui affiora un’intuizione autentica: una linea di basso ipnotica, un verso che spezza l’indifferenza, un’armonia che sorprende per delicatezza. Ma sono frammenti dispersi in un disco che, nel suo complesso, fatica a giustificare la propria esistenza.

In definitiva, Some Like It Hot è un album che conferma più limiti che punti di forza. È coerente con il mondo sonoro dei bar italia, ma allo stesso tempo ne mostra la fragilità: la ripetizione dell’estetica lo-fi come fine e non come mezzo, la scrittura rarefatta che smette di comunicare, la scelta deliberata di non crescere. Non è un brutto disco, ma è un disco vuoto, privo di quel rischio che aveva reso affascinante la band agli esordi.
Forse i bar italia stanno attraversando un passaggio di consapevolezza e questo album è il loro modo di fare i conti con la propria immagine. Ma per il momento, il risultato è un lavoro che si ascolta con rispetto, ma senza reale emozione: un album che resta in superficie, come una fotografia sfocata di ciò che i bar italia erano – o potrebbero ancora essere, se solo trovassero il coraggio di cambiare davvero.