Black Honey Black Honey
7.6

Siamo sinceri con noi stessi, l’indie di provincia ha un po’ stufato. Gruppetti su gruppetti si sfidano in una disperata caccia al titolo di “prossima scintilla dell’indie rock” proponendo la solita combinazione di accordi, testi e look in tutte le salse disponibili. Eppure qualche anno fa, il 2014-2015 ci ha regalato una classe di band che sono riuscite a mettere a segno colpo dopo colpo, fino all’essere diventate, oggigiorno, delle istituzioni nel settore indipendente d’oltremanica. Blossoms, Wolf Alice, Slaves, … tutti prodotti di quei magici anni quando ogni nuova band sembrava essere pronta a scrivere un piccolo pezzo nella storia del genere. Ma mentre per molti di loro il destino ha previsto un bel contratto discografico e un debut in uscita l’anno seguente, un solo nome in questo insieme di “vecchie” glorie ha preferito seguire la rotta opposta, rimanendo fedele ai principi dell’essere un gruppo indipendente e rifiutando qualsiasi tipo di contratto discografico, contando solo sulle proprie forze. Venerdì scorso, a distanza di quasi 4 anni, forse l’ultimo nome della classe d’oro dell’indie rock corona finalmente il suo sogno: i Black Honey rilasciano il loro debut album, in maniera 100% indie.

Abituato a seguirli nel loro percorso durante gli anni, partendo dai giorni di Soundcloud fino al primo, sudato approdo su Spotify, la notizia non può che strappare un sorriso: avendo rinunciato a contratti e scartoffie discografiche per non scendere a compromessi con  la loro musica, per essere i soli in controllo della lor direzione artistica, questo debut è davvero il prodotto di una crescita nel tempo puramente organica, un processo di raffinazione del sound e scrittura maturato solo col tempo e con l’esperienza, piuttosto che con aiuti e suggerimenti esterni. La voglia di imbracciare la chitarra e fare un po’ di sano casino che ha contraddistinto il quartetto per tanti anni non è invecchiata affatto: già dalle prime battute del disco, I Only Hurt the Ones I Love mette in chiaro che è principalmente un disco rock quello che andremo ad ascoltare. I tratti distintivi del gruppo ci sono tutti, la voce tosta e attraente di Izzy fa sempre da protagonista, accostata ed accentuata da intramezzi di chitarra stile "Spaghetti Western” e note di basso marcate che contribuiscono enormemente nel dare all’intero disco un sapore più maturo, ben eseguito e, per dirla con una parola, cool. Lo stesso stile viene ripreso più volte nel disco, come per What Happened to You, un po’ più carica nel reparto chitarra, e Bad Friends, una slow jam che unisce rumori di frusta come nel più classico film Western e un bel ritornello catchy e ritmato, che non fa mai male. Il culmine è raggiunto da Hello Today, un classico singolo di anni trascorsi approdato sul disco: ritmo trascinante, voci squillanti, assolo di chitarra sul finale e testo pronto ad essere imparato a memoria dopo due ascolti, la ricetta per la torta di mele dell’indie rock.

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Da bravi del genere però, i Black Honey sanno bene che un disco interamente su questo filone avrebbe annoiato molto presto, e come di consueto nei loro precedenti EP hanno saputo infilare tracce con più varietà artistica nei punti giusti per insaporire di più l’album. Midnight ne è un esempio lampante: nonostante fin dall’inizio della loro carriera i quattro si fossero schierati apertamente contro l’utilizzo di synth e strumenti elettronici per la loro musica, il tempo fa cambiare chiunque: Midnight è quasi un pezzo disco anni ’80, un pugno in un occhio, stilisticamente parlando, rispetto alla piega presa dal disco, ma non per questo poco riuscito. Trascinante e un po’ cheesy, è comunque impossibile non prestargli attenzione e tenere il tempo durante il ritornello. Dig e Baby lasciano spazio per pezzi più tranquilli, delle ballate dal sapore un po’ nostalgico, che danno il giusto risalto alla voce solista della frontman, e che si lasciano ascoltare molto volentieri grazie a dei ritmi e a delle melodie ben intavolate in entrambe le occasioni; le più quotate ad essere farfugliate live tenendo in mano una birra di troppo. Per quanto, nel complesso, il finale del disco tenda a scendere a spirale in pezzi meno entusiasmanti e forse troppo lavorati nel cantato, come la doppietta conclusiva di Just Calling e Wasting Time, entrambe un po’ sotto tono, contando su elementi non molto riusciti, come ad esempio le dissonanti note di tastiera nel ritornello della prima delle due. Nota positiva è invece uno dei pezzi originali del disco, Into the Nightmare, deciso e ritmato alla “Snap Out of It” con in serbo un climax finale di piano rock fra i più decisi nel disco.

Alla fin fine, dopo anni di attesa, i Black Honey sono riusciti a produrre il disco a cui tanto aspiravano sin dai primi giorni della loro carriera, riuscendo addirittura a penetrare la top 10 inglese nella prima settimana di vendite. In un'industria dove il support e l’influenza di mastodontiche case discografiche sembra essere diventato la normalità per rilasciare un disco, anche nel settore indipendente, è sempre bello ricordare di come l’indie sia ancora capace di far vedere le unghie, e di come qualche sorpresa nel genere sia ancora possibile da ottenere.