DAMN. Kendrick Lamar 14 aprile 2017
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«Essere intelligibile e allo stesso tempo modificare l’uso corrente della lingua». Soddisfa queste condizioni la definizione di «scrittore», secondo José Ortega y Gasset. Soddisfa queste condizioni anche la definizione di «Kendrick Lamar». Ma Lamar non ha solo plasmato l’uso corrente della lingua, articolando testi verbalmente complessi e producendo linguaggio. Ha anche trasceso l’hip-hop, espandendone i confini e coniugandolo con influenze jazz, soul, R&B, funk.

Non si può scrivere o parlare di Kendrick Lamar senza confrontarsi con il risultato di questo lavoro, To Pimp A Butterfly (Interscope, 2015). Ci si sono confrontati tutti gli artisti venuti dopo, tra cui lo stesso Kanye West di The Life Of Pablo (Def Jam, 2016). To Pimp A Butterfly (TPAB) ha creato uno spazio sociale, politico, musicale, artistico, linguistico e culturale al di là della stretta dimensione musicale. Con questo spazio deve confrontarsi lo stesso Lamar. Per questo risulta difficile ascoltare DAMN. (Interscope, 2017), senza lo spettro del disco precedente.

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La distanza tra i due lavori si avverte sin dalle prime battute. Il jazz è scomparso, mentre soul, R&B e funk si percepiscono, ma solo raramente attraverso i sample. Il piatto è servito, condito con basi trap. Sono cambiati anche produttori e collaboratori. Tra le novità più blasonate fa molto rumore il featuring degli U2 in XXX., assieme a quello di Rihanna (decisamente meno inaspettata) in LOYALTY., ed a James Blake che figura tra i produttori di ELEMENT..

La frattura tra DAMN. e TPAB non è però così scomposta come sembra. Tutto si spiega, alla luce di untitled unmastered (Interscope, 2016). È un album a tutti gli effetti, pubblicato «a sorpresa» nel 2016. È un disco che apparentemente non aggiungeva nulla alla narrazione musicale di Lamar, dalla cui descrizione risultò più una raccolta di scarti di TPAB. Si può dire, invece, che questo disco contenga il germe di DAMN.. Le basi trap – con i bassi portati all’estremo – che hanno preso il sopravvento sul jazz, si possono trovare già in untitled unmastered.

È ascoltando tracce come DNA., e la stessa ELEMENT. che si avverte, da subito appunto, lo svuotamento della coniugazione multi-genere in favore della corrente trap, maggioritaria a questo punto. Ironicamente “maggioritaria” è LOVE., un brano alieno alla discografia di Lamar, più adatto ad un disco pop/r&b contemporaneo.

DAMN. è, in sostanza, un album più adatto a Drake, non quello di Nothing Was The Same (Cash Money, 2013), bensì l’ultimo Drake. LOYALTY. potrebbe tranquillamente comprarla Drizzy ed inserirla nel suo prossimo disco. Tuttavia, si riesce a sentire un eco del vecchio Kendrick in brani come FEEL. e, stranamente, XXX., ma solo quando tocca a Bono Vox metterci la voce, ancora più stranamente. In ogni caso si tratta di un Kendrick spurio.

Proprio da XXX. si può iniziare una lettura diversa del disco, quella politico-sociale. «Donald Trump’s in office/ We lost Barack and promised to never doubt him again», Lamar riassume così la transizione dall’era Obama a quella Trump. Nessuno dei due è stato graziato da Kendrick. Lo stesso To Pimp A Butterfly è uno dei racconti più lucidi degli otto anni di Obama, pieni di speranze puntualmente deluse. Del resto l’America di Obama era quella del «No condom/ they fuck with you» e quella di Trump non è e non sarà diversa, se non per il linguaggio politico.

Nell’America di Trump, però, anche le speranze scarseggiano. Ed anche nel passaggio da TPAB a DAMN., oltre al jazz, si è perso tutto l’ottimismo. «I love myself» è diventato «FEAR.». Sulla paura si sono giocate e si stanno giocando le partite politiche più importanti del nostro tempo. FEAR. rimanda quindi al Kendrick di good kid, m.A.A.d city (Interscope, 2012) e si conclude richiamando le preghiere di quell’album.

In realtà, si può dire che DAMN. somigli molto a good kid, m.A.A.d city. Quell’album, che segnò il debutto di Lamar su major, era l’opera autobiografica di uno «scrittore» (lui stesso si era definito tale in relazione al disco), con una storia lineare. Anche DAMN. racconta una storia, quella di Anthony (di Compton) e di Ducky (di Chicago), con tratti autobiografici, ma non in maniera lineare. Proprio sull’ordine di ascolto delle tracce sono state fondate diverse teorie su un secondo album previsto per Pasqua, la risurrezione di Kendrick. Niente da fare, purtroppo.

E magari non avrà pretese messianiche, ma Lamar è ben cosciente del peso politico acquisito con To Pimp A Butterfly, infatti la narrazione di DAMN. si sviluppa tenendone conto – non potrebbe fare altrimenti. BLOOD. si conclude con il sample di un commento di un ospite di FOX News sui versi di Alright contro le violenze della polizia:

 

https://www.youtube.com/watch?list=RDU3_hi8eWdbY&v=Kh2aG57JrEc

 

Commentavano questa esibizione:

 

LOS ANGELES, CA - JUNE 28: Recording artist Kendrick Lamar performs onstage during the 2015 BET Awards at the Microsoft Theater on June 28, 2015 in Los Angeles, California. (Photo by Christopher Polk/BET/Getty Images for BET)

Uno degli ospiti, Geraldo Rivera, commentò quell’esibizione dicendo che «l’hip-hop ha fatto più danni ai giovani afroamericani del razzismo». Lamar gli ha risposto in YAH., accusando Fox News di utilizzare il suo nome per generare polemica e, di conseguenza, ascolti. «FOX News wanna use my name for percentage/ […] Somebody tell Geraldo this nigga got some ambition», perché è chiara la natura pretestuosa di un commento del genere. Di Rivera, s’intende.

Ma Alright è servita anche a questo:

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Ed a questo:

 

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La lettura politica, tuttavia, non spiega né giustifica la svolta prepotentemente trap di DAMN.. Questo album, musicalmente parlando, è troppo distante dai precedenti, in senso qualitativo. Perché la moda trap si addice meglio ad un Vince Staples. Da Kendrick ci si aspettano risposte con una devozione al limite del fideismo, che rende l’esegesi complessa. Invece DAMN. non fa altro che porre questioni, come, ad esempio: perché fare questo disco?

Difficile pensare sia una questione di marketing. To Pimp A Butterfly fu eletto all’unanimità miglior disco del 2015. E tutti – per tutelare la salute mentale – fingiamo di ignorare le decine e decine di featuring improbabili con gente come i Maroon 5 o Taylor Swift. Quelli valgono minimo mezzo milione a strofa. Dunque, per quanto la dimensione politica del disco – nonché linguistica – sia valida, è tutto l’impianto musicale a non convincere del tutto ed a far riporre le migliori speranze nel prossimo disco.