Quando il titolo dell’album è letteralmente “succhiotto”, il rischio cafonata, dobbiamo ammetterlo, c’è. Ma hickey, secondo album degli australiani Royel Otis, non è più cafone di quanto non lo siano una cotta post-adolescenziale, essere sottoni o un bacio con la lingua in macchina. Quindi beh sì, stiamo proprio al limite, ma dall’altra parte del confine c’è l’inattaccabile fascino della primissima età adulta, con i suoi svarioni, errori, orrori, con quella leggerezza che probabilmente non tornerà più. Scene da un momento della vita in cui essere adulti era tanto vero quanto provare i tacchi di mamma o radersi per finta con papà.
Possiamo sentirci giustificati a prendere meno sul serio la portata di sentimenti e sensazioni tali, solo per la loro prevedibile effimerità? Secondo me no, e se lo si fa è perché ci stiamo dimenticando di quanto erano vere e ingombranti quelle emozioni. hickey fa questo: più o meno bene, ma appartiene a questa dimensione.
Nell’ultimo anno Royel Maddell e Otis Pavlovic si sono distinti per l’ottimo Pratts & Pain, loro album d’esordio, e hanno indovinato una serie di pezzi diventati virali come la cover di Murder on the Dancefloor di Sophie Ellis-Bextor, finita poi nell’altrettanto virale film Saltburn; o la loro interpretazione di Linger dei Cranberries. L’atteso secondo disco, annunciato a fine giugno di quest’anno, poteva confermare o ribaltare la situazione (cit.): purtroppo o per fortuna, fa un po’ entrambe le cose.

Meno timido, più piacione ma con consapevolezza, hickey è un vero e proprio diario, una moodboard di tredici pezzi che cantano senza troppi giri di parole amori ancora acerbi e amori passati, insicurezza, troppa sicurezza, adorazione esagerata. Lo fa con un’attitudine fintamente raccolta, complice la voce di Otis mai sopra le righe, eppure così efficace nell’imbroccare melodie adorabilmente melense ma soprattutto memorabili: quando accade (i hate this tune, moody, who’s your boyfriend, car) tutto il pezzo gode di un quid notevole, nonostante la semplicità degli arrangiamenti viaggi pericolosamente sull’orlo della modalità pilota automatico. Se è fuori discussione che i Royel Otis sappiano attingere con gusto alla propria vena pop, è proprio nei pezzi trainanti del disco (dei quattro citati sopra, tre sono singoli che ne hanno anticipato l’uscita) che manca la trovata in fase di arrangiamento per trasformare un buon pezzo in una bella canzone: una variazione, una linea melodica nuova, qualunque deviazione sarebbe stata ben accetta e a mio avviso provvidenziale. Staremmo parlando di un disco di un altro livello, senza dubbio.
Però c’è un però, un fatto piuttosto curioso che emerge dopo qualche ascolto: i pezzi musicalmente più interessanti, che tentano di fare un passettino verso altro, sono quelli che all’inizio potremmo definire “minori”. Forse meno catchy, meno social-ready, periferici rispetto alla comfort zone del gruppo. Pezzi che indicano un controllo ancora parziale sopra un certo tipo di materiale. Cosa suggerisce tutto questo? Nel migliore dei casi, che i Royel Otis hanno effettivamente voglia di sperimentare e ce lo stanno dimostrando in tempo reale. Niente di sconvolgente, per carità, ma già una good times si permette di respirare, di appoggiarsi su un groove di basso e batteria più funkeggiante (per un momento viene in mente Currents dei Tame Impala, sarà un effetto placebo aussie?), di lasciare spazio a synth discreti ma colorati che richiamano i MGMT più recenti, chitarre liquide con un proprio carattere e reference chiare, in linea con il revisionismo anni ‘80/’90 degli ultimi anni (e ci piace). Stesso discorso per come on home, shut up, dancing with myself, she’s got a gun, tutti brani in cui viene data precedenza ai fianchi piuttosto che al fondoschiena: «you better not kill the groove», no?
E ribadisco che non sono questi i pezzi della vita, ma si trovano sulla via giusta - una via indie rock minimale, un sound poco vestito ma con abiti di classe - per dare ai Royel Otis un’identità che possa farli sopravvivere nell’infinito mare del rock alternativo, concorrenza annessa. Non a caso la cover di Murder on the Dancefloor, nella sua infinita semplicità d’arrangiamento e leggerezza, è una rappresentazione dei Royel Otis al massimo delle loro capacità, e ha riscosso un enorme e meritatissimo successo.

Chiude il discorso la doppietta finale more to lose / jazz burger, la prima una power ballad da road trip la cui atmosfera flirta da lontano con suggestioni shoegaze mentre la voce del buon Otis si lascia andare a dichiarazioni teneramente disperate:
If there's a world where I'm living without you
Then that's a world where I shouldn't be
La seconda è per stessa ammissione degli autori “la canzone più vera dell’album”, un titolo messo lì per gioco a sdrammatizzare una serie di addii e di ritorni impossibili. Le chitarre e pochi tocchi di piano filtrato creano un mood che richiama On Melancholy Hill dei Gorillaz, musicalmente ed emotivamente. Anche qui, negli ultimissimi versi del disco, si percepiscono tracce di orgoglio malcelato al limite del passivo-aggressivo, il tutto per proteggere un ego da tarda adolescenza che non sa/non vuole ammettere di essere ferito:
When I'm gone
You'll come running
Back into my arms
When I'm gone
You'll come crawling
Risulterà fin troppo zuccherino per qualcuno, pretenzioso o sbruffone per altri: i limiti di hickey sono evidenti e non sarò certo io a negarli. Eppure sono convinto che questo album non solo ha gettato le basi per qualcosa di interessante per il futuro della band, ma molto più semplicemente che possa essere la colonna sonora ideale per questa fine dell’estate, fosse anche solo per quelli che ancora indugiano un po’ troppo sul collo dell’altro.