Siamo sinceri: dopo Food for Worms (2023), gli shame qualcosa da dimostrare ancora ce l’avevano. La ricerca di un’immediatezza perseguita attraverso la registrazione in presa diretta dei brani ci aveva consegnato un album che dal punto di vista della produzione era assai più grezzo dei due predecessori, Songs of Praise e Drunk Tank Pink, senza tuttavia ottenere chissà quali risultati in termini di schiettezza. I bpm si erano abbassati, e la band stessa si accorse, durante il tour a sostegno di quell'album, che per scaldare gli animi del pubblico dovevano ricorrere sempre al loro repertorio precedente, in particolare attingendo dal loro album d’esordio.
Anche da questi presupposti nasce Cutthroat, il nuovo album della band inglese uscito lo scorso 5 settembre per Dead Oceans. Un album che già dai primi secondi testimonia una discreta forma degli shame, che tornano a suonare con quell’intensità che ci conquistò in Songs of Praise e con una produzione meno cervellotica di Drunk Tank Pink, ma altrettanto curata. Quindi sì, siamo contenti, e sì questo è il livello a cui siamo stati abituati da una delle band simbolo della rinascita post-punk britannica.

Registrato sotto l’autorevole e talvolta autoritaria guida di John Congleton («volevamo una specie di dittatore», hanno dichiarato a Stereogum), in particolare colpiti dal lavoro svolto dallo stesso con le Mannequin Pussy per I Got Heaven (2024), Cutthroat è il primo disco degli shame i cui testi sono stati scritti durante le stesse registrazioni, a dicembre dello scorso anno ai Salvation Studios a Brighton. Sottolineo questo particolare perché nonostante con il buon Charlie Steen il livello sia sempre ottimo, questa volta in alcuni brani (Plaster e After Party sono due ottimi esempi) la metrica appare un poco zoppicante, e data l’importanza ritmica della voce in una band come gli shame questa debolezza lirica finisce per diventare un freno a parti strumentali altrimenti belle spedite.
In ogni caso il disco ribolle di rabbia e voglia di rivalsa, e il messaggio passa forte e chiaro. Steen e soci provano a scrollarsi di dosso paure e insicurezze facendo propria una spavalderia che non ha paura di gridare a tutti che è l’ora di prenderci ciò che vogliamo, e riservando un gigantesco “fuck you!” a tutti coloro che hanno provato o proveranno a negarcelo: Cowards Around, Nothing Better, Plaster, la conclusiva Axis of Evil sono tutti esempi di brani in cui gli shame sparano a zero contro chiunque, letteralmente, rivendicando la propria libertà di scegliere e di essere felicemente sé stessi, qualunque cosa significhi.
E il sound di questo disco, di nuovo in corsa su binari velocissimi e agitati, aiuta perfettamente a rendere l’idea. La doppietta iniziale Cutthroat/Cowards Around è un manifesto in questo senso: la title track, libertina e incazzata, già prescelta per il ruolo di brano di chiusura dei futuri concerti della band, si arma di un riff di chitarra che a malapena trattiene tutta la sua prorompente sporcizia, mentre la voce di Steen è quella di un diavolo tentatore che sa di aver ragione mentre canta “do what you wanna do”; Cowards Around invece non risparmia a nessuno l’etichetta di codardo:
“Cowards are politicians criminals
Cowards are gel-haired real estate agents
Cowards are people who got a degree
Cowards are people who like people like me”

Il disco procede spedito tra il rockabilly scuro di Quiet Life e una Nothing Better che richiama alla mente il sound di Songs of Praise; l’edonistica Plaster e lo sfogo di Spartak, diretta a tutti quei “cool kids” di cui Charlie Steen conserva il ricordo sin dai tempi della scuola: quelli che lo denigravano perché non ascoltava la musica giusta e non portava i vestiti giusti. A loro ricorda che “you’re not better than me”, prima di passare alle chitarre in stile Strokes di To and Fro e rivendicare che non serve una bella voce per cantare cose vere. Un bel cambiamento, questo, dai tempi di One Rizla, quando si autommiserava cantando “Well, I'm not much to look at / And I ain't much to hear”.
Arriviamo quindi alla vera sorpresa di questo disco, Lampião: intro con la sola voce che canta in portoghese (!!!) (imparato da Steen durante la relazione con la sua attuale ragazza, di origine brasiliana) Acorda Maria Bonita, una canzone popolare brasiliana dedicata proprio al fuorilegge brasiliano Lampião. Il brano si trasforma immediatamente in un parlato che narra la storia di questo mitico personaggio folkloristico, l’equivalente carioca di Jesse James, sorretto da una batteria sostenuta e accordi di chitarra spigolosi e dai toni chiusi, nello stile di numerosi brani di Drunk Tank Pink. Steen è venuto a conoscenza della storia proprio durante un viaggio a San Paolo, mentre si trovava in visita dalla famiglia della sua ragazza, ed è rimasto colpito dalla forma orale di trasmissione della storia, che ha definito “old school” nei modi e che ha cercato di conservare nella sua riproposizione.

Segue After Party, un altro pezzo interessantissimo in particolare per l’inaspettata (e in parte un po’ slegata dal resto) apertura del ritornello, decisamente più disteso rispetto al tipico repertorio degli shame e guidato da una semplice ma efficace melodia affidata a una tastiera. Le ultime cartucce rispondono ai nomi di Screwdriver, Packshot e Axis of Evil, che chiudono il disco proponendo rispettivamente un sound a dir poco incandescente, un altro momento spoken non estraneo a improvvise esplosioni e un gran finale che deve molto all’elettronica degli anni ‘80, quasi un crossover con certo materiale dei New Order.
Anche quest’ultimo pezzo è l’ennesimo “fuck you”, questa volta rivolto al materialismo superficiale di chi crede di poter misurare - e poi comprare - qualunque cosa con il denaro. Un finale coerente con l’anima di un disco che decide di accusare invece di autocommiserarsi, perché a volte « è necessario essere arrabbiati per farsi valere». Gli shame qui lo dimostrano in modo convinto, e se come scritto in apertura avevano qualcosa da dimostrare, beh, lo hanno fatto. Rimangono da sistemare alcune cose e certe vie da esplorare con più calma, ma la forma sta decisamente tornando, e i livelli dei primi due album non sono poi così lontani.