No Rain, No Flowers The Black Keys
5.8

Siamo di fronte ad uno dei periodi più floridi - dal punto di vista quantitativo e di uscite - dei Black Keys dalla pausa post Turn Blue. Tutti ricordiamo come era stato accolto a gran voce il loro ritorno sulle scene dopo ben cinque anni di assoluto silenzio. Quello che ne era risultato fu Let's Rock (2019), un disco con ritornelli proverbialmente catchy, un'attitudine garage ben definita e testi di ottima qualità. L'album era stato scritto, composto e arrangiato interamente dal duo Auerbach-Carney, i quali erano ritornati al nocciolo della situazione, prendendo per i capelli i toni pomposi (e bellissimi, sia chiaro) di Turn Blue al fine di stravolgerli per far tornare la chitarra elettrica di Auerbach la protagonista indiscussa della scena. Poi era arrivato Delta Kream, con assaggi dal mondo blues, il piccolo giro a vuoto chiamato Dropout Boogie, poi bissato da uno spento Ohio Players, fino ad arrivare al terzo album in quattro anni: No Rain, No Flowers. Un'accelerazione che era stata tipica dei Black Keys degli esordi o di quei primi anni '10 che ci hanno riservato, di fila, Brothers (2010), El Camino (2011) e il già citato Turn Blue (2014). I tre no skip album della band per eccellenza.

I Black Keys di "No rain, no flowers": la recensione
I Black Keys | Foto press

Perciò, quando inforco le cuffie per ascoltare questo nuovo lavoro, mi pongo già la domanda se abbia ancora senso ascoltare i Black Keys nel 2025. Non lo faccio per mettere le mani avanti ma la ritengo, più che altro, una lucida paura. Che abbiano già sparato tutte le cartucce a loro disposizione? Che le frecce nella faretra siano terminate da un pezzo? Il timore, forse, era anche quello del duo stesso visto che, nei vari concerti di quest'estate, si sono riservati il diritto di suonare soltanto due dei cinque pezzi già usciti come singoli del loro nuovo lavoro.

No Rain, No Flowers è un album scritto a molte mani. Non è una novità per il duo ma le collaborazioni non erano mai state così tante. Rick Nowels (paroliere, tra gli altri, di Lana Del Rey e Stevie Nicks), Daniel Tashian (famoso per dei lick musicali generazionali in serie tv come Pretty Little Liars, Nashville e Breaking Bad), Scott Storch (Beyoncé e 50 Cent) ma anche Tommy Brenneck (Menahan Street Band), Pat McLaughlin (collaboratore di Neil Diamond e Johnny Cash), il solito Leon Michels, collaboratore di lunga data dei due e Desmond Child (Bon Jovi e co-autore del tormentone-tormentino Livin' la Vida Loca di Ricky Martin). Insomma, un mare magnum di collaboratori, parolieri e collaborazioni artistiche che ha portato come risultato finale ad una confusione generale non da poco.

C'è da dire che il caos era regnato sovrano anche l'anno scorso. I Black Keys erano stati chiamati per suonare al 2024 America Loves Crypto Tour ed erano stati criticati addirittura da GQ a causa del legame del tour con comitati di azione politica che finanziavano politici favorevoli alle criptovalute nelle elezioni statunitensi del 2024. E, senza fare nomi, sappiamo bene chi fossero. Il concerto speciale era stato giustificato dai Black Keys in un'intervista a cuor sincero a Rolling Stone. Il loro intero tour 2024 negli Stati Uniti era stato cancellato a causa delle scarse vendite e lo spettacolo dedicato alle criptovalute si era rivelato un modo per guadagnare qualcosa al fine di compensare il personale che stava lavorando al tour cancellato. Auerbach e Carney non avevano speso parole felici neanche per il promoter Live Nation - che aveva organizzato loro la tournée poi annullata - per le azioni monopolistiche che l'azienda perpetrava nei confronti dei musicisti, dichiarando che l'ambiente dei tour del 2024 stesse diventando ostile agli artisti stessi.

È attorno a queste difficoltà di nemmeno un anno fa che i Black Keys si sono riaffacciati al mercato discografico con una nuova fatica. Lo hanno fatto anche un po' sprezzanti del pericolo, rilasciando singoli per la metà dell'album. Cinque brani su undici, prima dell'uscita del disco, erano già stati dati in pasto alle radio, da febbraio a giugno di quest'anno. Anche pezzi che, probabilmente, non erano proprio dei singoloni da battaglia. Babygirl, in questo, si rivela il brano più facilone del lavoro, con testi drammaticamente poveri, poco profondi e non ispirati

I like the things you say
They sound like peaches and cream

I ragazzi delle pesche con la crema (un dubbioso binomio, tra l'altro) sono gli stessi che cantavano giusto undici anni prima

Dance all the night 'cause people, they don't wanna be lonely
Never wanna be lonely
They don't wanna be an only one

Quello che anche a primo impatto si sente, o meglio si sente che manca, è il piglio garage vero e proprio che li ha da sempre contraddistinti. Soprattutto anche ai live e che, quindi, non cercano oggi di rinnegare consapevolmente. Appare, infatti, sempre più forte la distanza tra i Black Keys che incontriamo dal vivo e quelli che incidono nuovi pezzi su disco, come fossero due entità veramente separate, due gruppi che tra loro non riescono a comunicare a sufficienza. In questo, Make You Mine è il vero paradigma della confusione, uno dei punti più bassi della composizione del duo di Akron dal post pandemia. La narrazione dell'uomo che crede che la donna gli stia giocando degli stupid tricks è vecchia decrepita quanto desueta

I see the fire in your eyes
You try to play this stupid game

Man On A Mission, che già era nota dal 20 giugno scorso, risulta, invece, uno dei punti più elevati del disco. Che, forse, è tutto dire. Il bridge è quello degli esordi e il groove è azzeccato. Quello che fa riflettere e che portano a pensare Auerbach e Carney, anche dopo pochi ascolti, è che appare sempre più chiaro che per apprezzare un nuovo brano - se proprio non un intero lavoro - dei Black Keys si debba ricorrere a stratagemmi atti a pensarli in una chiave di operazione-nostalgia che porta, per forza di cose, a ricordare che un pezzo come Man On A Mission sia sì funzionante perché proprio della band ma sicuramente meno determinato e consapevole rispetto ad un pezzo del passato.

I Black Keys live al Rock in Roma 2025
I Black Keys live al Rock in Roma 2025 | Credits: Liliana Ricci

A tratti non sembra nemmeno di riconoscerli. Se All My Life li distrugge dal punto di vista canoro, Kiss It è un elogio della ripetitività. In A Little To High ascoltiamo delle eco di Lo/Hi e si arriva a pochi pezzi dal termine e ci si chiede il perché manchino assoli pesanti, quelli ai quali ci avevano abituato bene, anche nei recenti lavori. Abbiamo ancora in testa il bel giro di Shine A Little Light, ad esempio, per non parlare di Walk Across The Water - sempre anno di grazia 2019, sempre Let's Rock - quando l'essere rivoluzionari risiedeva nel rallentare il ritmo dei pezzi per aprirsi ad un pubblico leggermente più vasto ma comunque consapevole di ascoltare il duo di Akron, Ohio.

Il finale del lavoro apre ad un minimo spiraglio. Neon Moon sembra uscita direttamente dalla Easy Eye Sound, la casa discografica di proprietà di Auerbach (che comunque quest'anno ha fatto uscire tanta bella roba, un consiglio su tutti è Medium Raw di Early James, poi non dite che non vi avevo avvisato). Il finale è quindi una ventata d'aria fresca nella giusta direzione. Forse stanchi dopo dieci pezzi impalpabili, Neon Moon ci è parso quel lumicino di speranza da accogliere. Sempre se i due vogliano decidere finalmente di innovare il proprio sound - arrivati al tredicesimo lavoro in studio - in una dimensione più personale, probabilmente senza troppe spinte dall'esterno, alla ricerca di una hit che non sempre è necessario che arrivi. Non è mica obbligatorio ma, come per la frequenza all'università delle lezioni più importanti, fortemente consigliato.