Tired of Liberty The Lounge Society
7.9

Quando i quattro ragazzi, non ancora maggiorenni, iniziarono a suonare dal vivo, più di ogni altra cosa, sentivano il bisogno di non sfigurare. Normale per una band di quindicenni che ha appena strappato un contratto con una casa discografica senza ancora aver pubblicato alcunché. Oltre alle canzoni che sarebbero finite nell’Ep d’esordio Silk for the Starving (2021), i The Lounge Society si cimentavano in alcune cover degli Strokes. Un anno dopo, a poco più di una settimana dall’uscita del loro primo album, si sono ritrovati ad esibirsi al Lytham Festival come apertura alle Wet Leg, ai Fontaines D.C. e proprio alla band newyorkese capitanata da Julian Casablancas.

Di strada ne hanno fatta Cameron Davey (basso e voce), Herbie May (chitarra), Hani Paskin-Hussain (chitarra) e Archie Dewis (batteria), e in pochissimo tempo. Dalla firma con la Speedy Wunderground al debutto prodotto da Dan Carey Tired of Liberty: un album variegato e dal ritmo vorticoso, dove ai ritmi saltellanti di chitarre e percussioni si alterna una costante voglia di sperimentare intrisa di una sana e rara spudoratezza.

Questa storia inizia nel nord dell’Inghilterra, tra Hebden Bridge e Todmorden, due cittadine diverse per numero di abitanti, 4mila e 14mila, ma molto simili per clima e ambiente sociale. Sovrastati dai monti Pennini e assediate costantemente dalla pioggia e dal vento, i luoghi di provincia del West Yorkshire hanno forgiato i suoni rapidi e quasi privi di distorsione delle corde e la ruvidezza della voce di Cameron. Non troppo vicini a Manchester, lontanissimi da Londra, i quattro studenti inglesi hanno trovato nella musica un modo per scongiurare quella monotonia che paragonano al purgatorio in Boredom is a Drug: la smania del movimento si avverte dalla batteria burrascosa, il senso di ribellione dalle parole del titolo urlate come nella più classica delle canzoni dei Ramones o dei Sex Pistols.

Per fortuna la provincia del Calderdale, tra le vie e i locali, nasconde un tessuto giovanile in fermento, sia da un punto di vista culturale che politico. A quattordici anni gli ancora ignari futuri membri dei The Lounge Society assorbivano le nuove tendenze musicali varcando le porte del celebre The Trades Club. Oggi anche loro fanno parte di quello che è stato soprannominato “Calderfornia Sound”, insieme ad altre band emergenti come i Working Men’s Club. «North is Your Heart» cantano nel brano omonimo che – forse non è proprio un caso – si trova al centro della tracklist. Una canzone poco rumorosa ma ritmata, un folk-punk che la cui calma apparente è funestata dalla velocità supersonica della batteria nel finale. La voce femminile nel ritornello è Anouska Sokolow, frontwoman degli Honeyglaze, altra giovanissima band della scuderia Speedy.

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There’s a generation staring
down the barrel of a gun
N you won’t ever find them
on the cover of the... Sun

Per iniziare a conoscere e comprendere la giovane band dello Yorkshire è tuttavia necessario partire dall’ultima traccia di Tired of Liberty, esordio assoluto presente nel loro Ep del 2021. Generation Game è un inno. Sia chiaro, non stiamo parlando di un ritornello da stadio, da un punto di vista musicale ci troviamo in ambito post-punk: per la prima metà sembra di ascoltare una versione rabbiosa dei Fontaines D.C. di Dogrel, chitarre che costruiscono un muro e il basso che accenna la melodia, nella parte centrale invece – prima della ripresa finale – il suono si fa offuscato e psichedelico. Al contrario, è il testo a farsi carico di tutta la frustrazione della gioventù insoddisfatta dal modello sociale contemporaneo: «Keep on turning that wheel at all costs / You’re just a cog in their golden machine».

Blood Money, primo singolo estratto dall’album, è un’altra canzone d’accusa al sistema economico e politico. Le armi della critica sono strofe speakerate su un acido arpeggio di chitarra, il tutto conduce a un ritornello aperto dove lo spazio rimanente è occupato dal suono piatto e allungato della voce di Cameron. Per lunghi tratti le assonanze con gli Shame - facendo un lungo passo indietro vengono in mente gli A Certain Ratio - sono quasi sconvolgenti. Il tocco personale si avverte come al solito nell’ultimo minuto.

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Uno degli obiettivi dichiarati dalla band in fase di registrazione è la volontà di stupire e non ripetersi. La versatilità è proprio l’arma in più del gruppo, che a partire dalla traccia di apertura, si lascia andare e mescola tra loro tutte le influenze. People Are Scary ha un incipit danzereccio, a metà strada tra il funk ultra ritmato dei Talking Heads e le sfumature reggae dei Clash, che crea un piacevole contrasto con l’inadeguatezza espressa dal testo. Nella coda una nebbia elettronica offusca il suono, mentre al contrario le parole chiariscono la triste situazione del protagonista.

La ricerca del sound personale e riconoscibile dà i pieni frutti quando la band si libera dagli schemi classici. Beneath the Screen e It’s Just a Ride hanno in comune un utilizzo interessante del synth. La prima è un pezzo punk-funk rivitalizzato dagli accordi elettronici della tastiera che, come se fosse una jam, si trasforma, accelera e alla fine diventa un turbinio di suoni elettronici distorti. La seconda ha una struttura più tradizionale, il synth decora l’intro e allarga i confini spazio-temporali del ritornello che raggiunge il picco del pathos con la voce spezzata e il cantilenante la-la-la.

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No Driver è la canzone che racchiude in sé le infinite possibilità della band inglese. Batteria e drum machine creano subito un’atmosfera ossessiva, resa drammatica dagli arpeggi che si fanno accordi pieni col passare dei secondi, in un crescendo senza fine. Cameron canta allungando i suoni, specialmente nel ritornello, dove persino il ritorno del ritmo funky delle chitarre assume tutto un altro sapore e diventa metafora della perdita del controllo. Non c’è più bisogno di guidare, la tentazione di arrendersi è sempre più forte: «You don’t need to drive, bathed in straight lies resting your head / the black dog knows». La depressione, qui rappresentata come un cane nero, è una delle tematiche sfiorate anche da Remains, un brano completamente diverso: movimentato ma molto più distorto e heavy. Guardarsi allo specchio e ridere come se si stesse osservando il riflesso del dolore di qualcun altro, mentre le chitarre e il basso esplodono in uragano di rumore e distorsione.

L’aspetto che più sbalordisce dei The Lounge Society è la loro fiducia nel ruolo che la musica può rivestire e nei messaggi che possono essere veicolati attraverso essa. Non c’è solo ribellione nei loro testi, ma anche un’analisi critica – e poetica - della realtà attuale.

I will spend my last breath singing

Il ritornello di Last Breath può essere d’altronde assunto come mantra della band: suonare, cantare, anche trascinando la voce su una labile e ondulante linea di falsetto, del mondo che ci circonda, se possibile ballandoci anche su. Careless. Upheveal è l’esplicazione migliore di questo atteggiamento: un brano atipico che sa di anni Sessanta, un’eccezione all’interno dell’album, costruito come una ballata ambientalista a tinte fosche. Il testo rappresenta il punto di vista di un uccello che ha perso l’orientamento in mezzo ai grattacieli di una città.

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Tired of Liberty è un debutto che conferma quanto di buono anticipato dai The Lounge Society in questo ultimo anno e mezzo. Un album che, nella vastità di stili ed influenze che rielabora e miscela, testimonia lo sforzo dei quattro ragazzi inglesi di calibrare un suono quanto più personale, riconoscibile almeno quanto la vena polemica e sfacciata di certi testi. Non sempre riescono nell’intento, talvolta smarcarsi dal pesante passato costituito da band come gli Scritti Politti - oltre che gli già citati Talking Heads, i cui ritmi riecheggiano in continuazione - è quasi impossibile.

Il gusto dell’ascolto, insieme con un incontenibile stimolo al ballo, o al pogo, a seconda del contesto preso in considerazione, non vengono tuttavia mai meno. La cosa più preziosa restano gli spiragli che la band apre in qualche traccia, o anche solo in alcune sezioni di qualche brano: spiragli di uno stile originale che col tempo potrà essere circoscritto sempre meglio ed evolversi. Per ora tocca “accontentarsi” di un debutto sopra la media, coerente, calibrato e suonato splendidamente. In fin dei conti la loro avventura è appena incominciata.