Wall Of Eyes The Smile
9.3

Quando Thom Yorke e Jonny Greenwood avevano annunciato in piena pandemia la nascita degli Smile, il loro nuovo progetto assieme a Tom Skinner dei Sons of Kemet, tutti avevano pensato al solito side-project relegato alla quarantena in cui versava il mondo, in attesa del ritorno dei Radiohead

A due anni di distanza, con l’uscita del secondo album della band Wall Of Eyes, una cosa dovrebbe essere certa anche all’ultimo degli scettici: gli Smile non sono un passatempo, hanno una loro dimensione e identità. I Radiohead ritorneranno mai? Chi lo sa, ma nel frattempo godiamoci la creatività sconfinata di Thom Yorke e Jonny Greenwood.

The Smile "Wall Of Eyes" promo photo
Credit: Frank Lebon

Wall of Eyes è un disco con sole 8 tracce, ma tutte corpose: la più corta (Friend Of A Friend) dura “solo” 4 minuti e mezzo, la più lunga (Bending Hectic) ben 8. 

L’album si apre con la title track, con una chitarra acustica che si richiama alla bossa nova. Let us raise our glasses / To what we don't deserve / What we're not worthy of” canta Yorke con la sua voce sognante all’inizio della seconda strofa. Versi che aveva scritto più di dieci anni fa, in un manifesto pubblicato dai Radiohead per l’uscita di King Of Limbs.

La successiva Teleharmonic (la cui versione strumentale era già apparsa nel finale di stagione di Peaky Blinders) è dominata da un layer di sintetizzatori eterei, dando una sensazione di lento distacco dalla realtà per fluttuare altrove. “Where are you taking me?” si chiede Yorke mentre gradualmente si aggiungono le parti ritmiche e i fiati. Un brano in crescendo, come accadrà a più riprese durante l’album.

The Smile "Wall Of Eyes" promo photo
Credit: Frank Lebon

Le successive Read The Room e Under Our Pillows cambiano totalmente registro, dominate dalla chitarra di Greenwood che ne scandisce l’umore e l’attacco. Nella prima si sentono forti le influenze krautrock (l'amore per i Can d'altronde era già stato più volte dichiarato anche con i Radiohead). La seconda invece, con le corde pizzicate e un delay di ottave puntate, ma con gli accenti spostati in avanti, richiama sicuramente i lavori di Steve Reich (a cui lo stesso Greenwood è molto legato) e Thin Thing del precedente album A Light For Attracting Attention.

La voce di Yorke, la chitarra di Greenwood e la batteria di Skinner si sostengono a vicenda, mentre il pathos del brano aumenta. Come un'onda che cresce e poi si ritira, a un certo punto si arriva quasi al silenzio totale, finché un leggero arpeggio di Greenwood non si trasforma in qualcosa di più sinistro, incalzato dall’arrivo di un riff di basso cupo e ombroso. “This is major league make believe make believe\ Make believe” canta Yorke, mentre si aggiungono la batteria e gli archi spettrali della London Contemporary Orchestra. Seguono circa 3 minuti di puro prog strumentale. Siamo esattamente a metà disco ed è normale sentirsi spaesati. Spinti verso direzioni dove in pochi osano andare. 

Credit: Frank Lebon

La successiva Friend Of A Friend è un omaggio ai Beatles, nonostante i diretti interessati ne abbiano negato l’influenza. Anzi, a detta loro è una cosa che hanno cercato di evitare a tutti costi, dato che la registrazione del disco è avvenuta proprio negli studi di Abbey Road

“Oh the window balconies they seem so flimsy as our friends step out to talk and wave and catch a piece of sun” sembra riassumere perfettamente la pandemia in Italia. Persone sui balconi, che cercano di catturare per sé un raggio di sole dalla relegazione forzata nei propri appartamenti. Non manca una critica da parte di Yorke nei confronti di chi si è approfittato del Covid per arricchirsi: “All of that money, where did it go? where did it go? In somebody’s pocket? A friend of a friend" afferma con amarezza.

Si arriva così a una delle tracce più cinematografiche dell’album: I Quit. Qui le parti orchestrali di Greenwood hanno una parte centrale nello svolgimento del brano. Potrebbero essere benissimo state scritte per uno dei tanti film di Paul Thomas Anderson di cui ha composto le colonne sonore.

In tutto ciò bisogna sottolineare anche il lavoro di altre persone oltre ai membri della band stessa. Ci sono tre individui che sicuramente hanno aiutato a plasmare a loro modo il risultato finale del disco. Ovviamente uno è Sam Petts-Davies, produttore dell’album che ha rimpiazzato l’onnipresente Nigel Godrich

Il secondo è Stanley Donwood, artista che cura le copertine dei Radiohead sin dal 1994: ha partecipato alle session di registrazione di Abbey Road per dipingere l’artwork e tutto l’immaginario visivo correlato. Un lavoro a cui ha contribuito lo stesso Yorke. 

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Infine, una menzione speciale la merita sicuramente il sopracitato Paul Thomas Anderson. La sua relazione professionale con Greenwood esiste dai tempi della colonna sonora del Petroliere (2007) e inevitabilmente ha finito per influenzare il modo di lavorare dello stesso Greenwood. Anzi, si potrebbe dire che le influenze siano state reciproche, tanto che lo stesso cineasta ha poi diretto diversi video per i Radiohead (su tutti, Daydreaming) e degli Smile (il recente video di Friend Of A Friend è di una tenerezza disarmante).

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Intanto l’album volge verso la conclusione, ma il viaggio non è ancora finito. Manca ancora l’apice del disco, nonché uno dei picchi più alti mai raggiunti da Yorke e Greenwood.

Inutile girarci intorno: Bending Hectic è un capolavoro. Il brano si apre con un arpeggio sognante di chitarra, che si chiude proprio su un bending (una tecnica chitarrista molto comune), fatto chiaramente per richiamare il titolo della canzone stessa. Già, ma il titolo a cosa si riferisce? A un incidente automobilistico. E qui potremmo aprire una parentesi gigantesca sulla fissa di Thom Yorke per questa tematica (Killers Cars, Airbag, The Drunkk Machine vi dicono niente?).

I am changing down the gears.

I am slamming on the brakes.

A vintage soft top from the 60s.

canta Yorke, facendo apparire davanti agli occhi dell’ascoltatore l'immagine vivida di una persona che viaggia su una decappottabile d’epoca e si ritrova di colpo a dover inchiodare. Nei versi successivi viene rivelato di più: l’auto sta per precipitare da una scarpata da qualche parte in Italia, e qualche attimo prima, l’autista molla il volante. Il tempo si ferma. C’è tutto il tempo di godersi la vita e realizzare che forse in fondo è un bel momento per andarsene. It might be as well.

Ed ecco che entrano gli archi, accompagnati sempre dalla voce di Yorke: I got these slings, I got these arrows i force myself to… turn, turn che rimandano direttamente al famoso monologo dell’essere o non essere di Amleto

To be, or not to be, that is the question:
Whether 'tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take Arms against a Sea of troubles,
And by opposing end them

Così come Amleto riflette su cosa sia meglio per lui, se morire oppure continuare a vivere, allo stesso modo Yorke si lascia sedurre dall'oblio, salvo poi tornare in se stesso e decidere di sterzare. L’euforia del togliere le mani dal volante, di godersi l’attimo con questa decisione condivisa con la persona seduta di fianco a lui (We’ve gone over the edge / If you’ve got something to say say it now) è passata.

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C’è un attimo di silenzio a preannunciare la tragedia. Un crescendo di archi stridenti entra violentemente (ricordando da vicino quelli di A Day In The Life dei Beatles, con buona pace di Yorke): è lo stridore dei freni, la macchina è irrimediabilmente fuori controllo. La chitarra distorta di Greenwood ne sancisce l’impatto: il primo accordo sbalza l’ascoltatore, mentre Yorke ritorna a cantare il disperato tentativo di sterzare. Il crescendo continua a montare, con un assolo di Jonny che descrive gli ultimi drammatici momenti. Erano anni che il chitarrista inglese non si cimentava in un assolo così energico e violento. Bending Hectic è sicuramente uno dei punti più alti mai raggiunti da Yorke e Greenwood. E lo avevamo già capito ascoltando il pezzo  dal vivo, praticamente in anteprima mondiale, al concerto nel 2022 al Fabrique di Milano.

Credit: Frank Lebon

Ormai manca solamente You Know Me! all’appello, l’ultima canzone dell’album. Un brano sognante sorretto dal piano e dalla voce eterea di Yorke. Gli ultimi versi “don't think you know me / Don't think that I am everything you say…” sanno quasi di monito verso l’ascoltatore, che pensava di sapere tutto sugli stessi Smile, prima ancora che dimostrassero di non essere molto più di un side-project. 

Gli Smile brillano di luce propria e con questo disco l’hanno ampiamente dimostrato. Se A Light For Attracting Attention era l’inizio di un nuovo percorso, ancora (inevitabilmente) legato all’universo Radiohead, Wall Of Eyes è la prova che questo trio ha ormai un’identità tutta sua. Siamo solo a gennaio, ma potremmo già trovarci di fronte al disco dell’anno. Come sempre solo il tempo avrà l’ultima parola a riguardo, ma per ora non sembrano esserci dubbi.

The Smile "Wall Of Eyes" promo photo
Credit: Frank Lebon