Virtue The Voidz 30 marzo 2018
8.8

Già. Come si direbbe dalle mie parti, un bel rebelòt. Ma da dove iniziare? Procediamo con ordine e mettiamo a posto le tessere del domino perché sarà dura. Molto dura. Dipingete quindi davanti a voi questa scena idillicamente orrenda: è l’ora più sbagliata della notte e, senza arte né parte, vi siete ritrovati al più malfamato All You Can Eat musicale per ingozzarvi delle grandi uscite di marzo. Tra un involtino primavera di troppo alla Jack White e un paio di semplici, ma tattici, sashimi dei Vaccines (di cui sentivamo tutti la mancanza), decidete di prendervi una pausa, quando improvvisamente notate che i tipi poco raccomandabili che prima monopolizzavano il bancone dei dolci se ne sono andati dimenticando un prototipo di un qualche strano gingillo elettronico (poco) sobriamente rètro, così come non succedeva dai tempi dell’Iphone 4 e dei suoi sbadati ingegneri. Vi ritrovate dunque tra le mani "Virtue" (RCA Records) insieme alla repentina intuizione che quei sei soggettoni non fossero altro che i The Voidz capitanati dallo storico Julian Casablancas e ora non potete fare altro che lasciarvi trasportare nella tana del Bianconiglio con il balenare di raggi B alle porte di Tannhäuser. Perché "Virtue", alla fine, non è null’altro che un singolare labirinto i cui corridoi cambiano ad ogni angolo sotto l’occhio vigile del simpatico Casablancas, che, come ogni Giano Bifronte che si rispetti, fissa lo sguardo sul passato/presente e futuro. Credetemi: una recensione a caldo non basta a saziare la critica di questo album, forse dovremmo rivederci tra mesi, se non anni, per riparlare a freddo di questa Odissea targata anni ’80 e magari con quindici diverse recensioni per ciascuna delle rispettive quindici band, ehm, canzoni che formano l’album tra identità sovrapposte varie e maschere liriche sfaccettate.

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Malgrado infatti il viaggio inizi in maniera rilassata sulle note di una chitarra molto reminiscente del surf rock estivo profumato in circuiti di elettronica in Leave It In My Dreams, che ricorda palesemente un brano qualsiasi dei The Strokes, già alla seconda traccia, QYURRUS, si viene trasportati in un Medio Oriente cyberpunk: sintetizzatori, basi e chitarre che sembrano onde statiche di elettricità e la voce distorta di Casablancas con l’autotune, cosa che mai avrei pensato potesse essere così ganza. Inoltre il testo raccoglie pure l’essenza stessa di "Virtue" in due rapidi versi: “Public is confused / prison jazz virtue”. Esatto, in pratica noi fessacchiotti che cerchiamo di decifrare quest’album senza mai probabilmente riuscirci appieno, mentre i Voidz si dilettano con musica anti establishment scritta da e per loro, incuranti dei dettami delle classifiche, delle top 10 e di tutto ciò che deriva dall’essere trending oggi. Questo folle giro sulle giostre però è appena incominciato, prossima fermata: cariche sonorità rock/metal talmente vintage da sembrare colonne sonore dei film di Robert Rodriguez come sfondo ai temi più cari per il Casablancas di "Tyranny" cresciuto a pane e sfiducia nel mondo, ossia disinformazione delle masse, critica dello status quo ed eterna impossibilità da parte della società di evitare gli errori del passato. Insomma, tutto ciò che ci si può aspettare di sentire senza filtri dai Voidz un po’ brilli. Anche se questi temi non brillano per originalità e rimangono su una trattazione universalmente generale, le loro tracce di riferimento (Pyramid of Bones, One of the Ones, Black Hole e We’re Where We Were) col quel je-ne-sais-quoi alla Black Sabbath e Metallica contribuiscono al fattore mordente dell’intero album, intervallandolo da certe pause forse troppo diluite da brani più “leggeri” come la tripletta consecutiva di Wink, My Friend The Walls e Pink Ocean. Tre brani che quasi incagliano l’album tra le dune di una pacata e distorta elettronica, pubblicati a distanza di troppi anni per partecipare alle selezioni del soundtrack di Drive, specialmente Pink Ocean con la sua base così anni ’80 e le chitarre riflesse al neon sui cofani.

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Restando su sound leggeri e facendo qualche passo indietro, Permanent High School, oltre ad intitolare praticamente un incubo diffuso, è invece un brano molto più piacevole nel complesso rispetto a quelli appena descritti, che non soffre della medesima monotonia generata da questi grazie allo stacco con ALieNNatioN, cupa musica da sala d’attesa per rilassare le proprie interiora prima di ributtarsi a capofitto nel futuro distopico di riferimento. E ora, un bel paragrafetto a parte per commentare uno dei brani meglio riusciti nell’intento dell’intero album: All Wordz Are Made Up. Il culmine del melting pot, tanto bramato dal gruppo, di diversi generi ed influenze che sfociano in un inimitabile risultato, che citando i Clash, è totalmente overpowered by funk nel miglior senso possibile. È una traccia senza tempo, un camaleonte generazionale sulla riva dell’infinito fiume del tempo. “No One Will Care about this”? Ne dubito fortemente.

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Spezzo anche una lancia a favore dell’acustica Think Before You Drink, una vera sorpresa considerato il contesto di stringhe di codice che circondano "Virtue", una canzone che vuole essere a tutti i costi imparentata con "The Wall" dei Pink Floyd. Critica della scuola e istituzioni simili che ottundono la mente dei giovani; ricorda qualcosa? Il trip digitale si chiude delicatamente, accettando il proprio fato in maniera stoica, con Pointlessness, rassegnazione alle sabbie mobili di chiusura che divorano "Virtue" in un buco nero di impulsi elettrico-digitali prima di lasciare noi ascoltatori in balia del grande nulla ex-post questa grande fatica dei Voidz.

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C’è poco da fare: "Virtue" è un album che merita più e più ascolti con totale apertura mentale, come il precedente "Tyranny" non è per tutti e ciò porta alle miste recensioni che vedrete online: o lo si apprezza nella sua polivalenza o lo si scredita brutalmente come l’ennesimo andar fuor tracciato di questi sei eroi moderni della sperimentazione su ogni fronte. Tuttavia a differenza dello stesso "Tyranny", è il trionfo della eterogeneità firmata anni ’80, l’anti "Is This It" che poteva nascere esclusivamente da chi aveva scritto quest’ultimo. A mio avviso un album da scoprire e interpretare, anche se a tratti impegnativo da digerire. Un baluardo di poliedricità nell’era della condivisione mainstream in grado di rompere prima, seconda, terza e quarta parete intertemporale. Pace.

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