23 ottobre 2020

Mentre la mia chitarra piange dolcemente sembro felice e invece ho il male di vivere

While my guitar gently wheeps, cantava George Harrison mentre la Gibson di Eric Clapton guaiva, sublime. Ma la realtà è diversa dal White Album. I musicisti, nostro diletto, soffrono di disturbi mentali, dice uno studio svedese. Un problema ricorrente, messo in ombra dal mercato. In Italia un’associazione offre assistenza

Troppi geni musicali, appesantiti da un male di vivere, hanno lasciato giovani questa terra. Ricordiamo Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse, i membri di un macabro club, il 27, gli anni che hanno vissuto. Confucio si sbagliava, lavoriamo anche quando scegliamo una professione che amiamo; succede quando la nostra salute mentale risente del carico lavorativo. Nessuno è escluso, anche gli artisti ne soffrono. Lo rivela un’indagine condotta nel 2019 da Record Union, un’azienda svedese che promuove musica sulle piattaforme streaming Spotify e iTunes e sul social TikTok: su un campione di 1.489 musicisti indipendenti, sette su dieci hanno avuto esperienze negative come stress, ansia e depressione, mentre tre su dieci hanno sofferto di attacchi di panico. La scelta di intervistare gli indipendenti, o indie, non è casuale. È il settore più esposto dell’industria discografica. Producendo da soli la propria musica e affidandosi a etichette discografiche minori, sono costretti a fare i conti con le major, multinazionali che detengono il predominio sul mercato, fortissime nella promozione a tappeto via radio, televisione, stampa e comunicazione visiva. Il senso di precarietà, tipico di chi non può competere con queste logiche perché non ha né un salario fisso né prospettive di una pensione, è diffusamente sentito dal campione, che ha dichiarato tra le cause principali del loro malessere la paura di fallire come artisti e l’instabilità economica.

Perché gli artisti indipendenti tendono a essere più scoraggiati? Lo chiediamo alla cantautrice torinese Valeria “Vea” Angelotti. «Con il web c’è più possibilità di emergere, tuttavia ogni volta che si lancia un contenuto musicale si rischia di auto annullarsi». Competere con centinaia di migliaia di artisti risulta difficile e non sempre i social, palcoscenici virtuali, vengono in aiuto. Vea fatica a conquistare gli utenti di Instagram: «I miei testi richiedono molto ascolto, non posso confinarli in un album di foto». Questa circostanza le ha creato una situazione di sconforto: «Se questo esterno è sempre limitato alla propria cerchia, a lungo andare sembra di non fare passi avanti».

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Seguono i problemi di identità: “Chi sono?” e “che cosa voglio fare della mia vita?” sono le frasi che ripetutamente si pongono i musicisti, ritenuti, ovviamente a torto, dall’opinione pubblica come fannulloni. Cosa non vera, considerando i capitali investiti in strumenti, nell’affitto di una sala di registrazione, in spese per l’uscita del proprio album. «Se non ti fai vedere in televisione, per gli altri non è lavoro», critica Giuseppe Bartolini, cantautore di base a Roma. «L’Italia è un Paese in cui un musicista non viene ritenuto come un lavoratore, ma come qualcuno che si sta divertendo. Non si viene realmente presi sul serio, questa è sicuramente una delle cose che mi butta più giù», rivela Matteo Polonara, cantante del gruppo bolognese degli Alinæa, un musicista che si definisce «estremamente sensibile ed empatico, per cui è facile che mi capitino momenti bui». Ma specifica, quasi rassicurandoci, che «è estremamente normale provare stress o ansia quando ci si butta nel campo dell’arte». Anche Bartolini ha dovuto affrontare l’ansia al di fuori del circuito musicale. La definisce «la Kryptonite di noi sensibili, che ci rende supereroi nei confronti di noi stessi». E la musica, come per gli altri intervistati, è la sua «terapia».

Il Coronavirus ha fatto la sua parte. Con lo stop delle attività si è fermata anche l’arte e per Vea anche la creatività. «Non riuscivo più a immaginarmi la vita di prima, il mio rapporto con i bambini ai quali faccio babysitting e con il mio pubblico. Non riuscivo a scrivere. Durante la quarantena ho suonato pochissimo, ho avuto un rifiuto per i live sui social». Ma si è fatta forza e ha lanciato Rifletto, un format su Youtube fatto di domande sulla quarantena e sulle prospettive di una ripartenza. «L’ho condotto riflessa sul pomello della mia lavatrice, ho intervistato sia colleghi musicisti sia altri lavoratori. Li invitavo a riflettere sulle lacune del proprio lavoro, ho chiesto a loro se la crisi andava a sommare i problemi esistenti e se c’era la possibilità di superarla», racconta Vea.

A causa della pandemia, Bartolini ha dovuto rimandare all’anno prossimo il tour del suo primo album, un momento tanto atteso dopo due anni di carriera. Pochi i live fatti finora: quattro da solista e uno con la sua band. Ci conferma che l’ansia da fallimento e la precarietà economica sono predominanti nel panorama indipendente. Problemi e preoccupazioni che ha sempre provato, ma che si sono amplificati nei mesi di lockdown. «Mi sono interrogato e ho pensato: “Ma in una situazione del genere, chi mi protegge?”» Sebbene si ritenga «Fortunato perché le cose che ho fatto sono andate bene e ne sono orgoglioso, grazie a un’agenzia di booking e a un’etichetta che mi seguono e mi aiutano», lamenta della mancanza delle tutele economiche da parte dello Stato. E fa l’esempio dei concerti in streaming, tentativo recente di portare un po’ di ossigeno tra i musicisti. Non c’è paragone, a detta di Bartolini, tra un live e un’esibizione registrata, perché «Fai un concerto in streaming e basta, poi cosa si fa? In un tour di 15 date lavorano una ventina di persone, che campano grazie ai concerti. Come posso pagare i miei musicisti? Chi paga il fonico e le luci?», protesta il cantautore.

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Un altro dato di Record Union che colpisce è la giovane età degli intervistati che hanno avuto problemi di salute mentale. È l’80%, hanno tra i 18 e i 25 anni. Si dichiarano preoccupati della propria condizione, tuttavia sono restii a contattare uno specialista, preferiscono confidarsi con amici o parenti. Ma c’è qualcuno che non può farlo perché soffre la solitudine, sentimento negativo che si aggiunge alla pressione del successo o del giudizio altrui, meno percepiti dal campione ma pur sempre rilevanti per determinare lo status psicologico di ogni intervistato.

Lo studio non è passato inosservato in Italia, dove nello stesso anno è nata Restart, la prima associazione di sostegno psicologico per i musicisti e i lavoratori del settore musicale. Fondata dall’agente Flavia Guarino, è composta da un team di 15 psicologi e psicoterapeuti che combatte il pregiudizio delle malattie mentali attraverso il motto It’s okay to not be okay (“Va bene non stare bene”, ndr), frase ricorrente nella psicologia internazionale che sfata un vecchio mito: «Non bisogna essere psicologicamente alla grande per essere performanti», svela Guarino, riferendosi a degli studi medici pubblicati. In soli 12 mesi, Restart è riuscita a coinvolgere 60 tesserati. Un buon numero, se si pensa che la campagna d’iscrizione è stanca troncata dal Covid-19.

Le consulenze avvengono via Skype o telefonicamente. Gli argomenti più ricorrenti nei loro tavoli di lavoro collettivi riguardano le strategie di coping e la mindfulness. Le prime derivano dal verbo inglese cope, fronteggiare. «Sono delle modalità soggettive per affrontare delle situazioni. Bisogna partire dal proprio vissuto per comprendere se sono funzionali, altrimenti si devono modificare, nel rispetto delle risorse della persona», spiega Michela Galluccio, psicologa a capo del team di Restart. La mindfulness è invece un esercizio di autoconsapevolezza, permette di comprendere ciò che succede nella nostra vita in un determinato momento e quanto l’esterno ci influenzi. Questa, accanto alle tecniche di rilassamento, ha la funzione di rivalutare il tempo di un individuo. Scarso per i musicisti, nullo per i professionisti. È una vita fatta di corse, di ritmi sonno-veglia irregolari, di pasti veloci e spesso non salutari. «Quello che ne consegue spesso è un abuso di alcol e di droghe, quando il momento di bere e farsi una canna diventa un momento di condivisione e di promozione», osserva Galluccio. In questo campo, in Italia siamo ancora lontani dalla no profit statunitense Send me a friend, portami un amico, una rete di ex alcolisti pronti a recarsi dietro le quinte di uno spettacolo per tenere compagnia a un musicista in difficoltà.

Guarino riflette sui lavoratori dello spettacolo, centinaia di invisibili «perennemente dietro ai successi di un artista», dimenticati non solo dal pubblico ma anche dal proprio settore. «Negli ultimi anni c’è stato un picco di depressioni forti tra loro. Lavorano ad alti livelli, devono essere performanti e fighi ma nessuno dirà mai a loro “bravo”». Ci parla anche della recente diffusione della sindrome dell’impostore, tra le più comuni tra gli addetti ai lavori: «Non è stata ancora inserita nella lista delle patologie di disagio mentale. È un totale scollamento tra quello che si fa e quello che si percepisce di fare svolgendo il proprio lavoro. Ci si sente come se si stesse ingannando tutti e la domanda che ci si pone sempre è “mi scopriranno?”».

Restart ha scritto della sindrome dell’impostore nel suo blog, consultabile su sito restartmusicminds.org. Ma il team crede nella corporeità, quindi auspica di trovare al più presto uno spazio a Milano, per partire con i circle time, momenti di confronto, un modo «per affrontare il discorso di sé stessi in una maniera nuova e più completa», segnala Guarino. Parlare di una sofferenza psicologica facilita a mitigare il senso di vergogna dei pazienti e a sradicare dalla società lo stigma che ritrae i problemi di natura mentale come malattie invalidanti. Lo sa bene Guarino, che ha vissuto la depressione in prima persona: «Se non l’avessi affrontata raccontandola, non avrei aiutato le persone in condizioni di disagio mentale, che vivevano lo stigma di non poter chiedere sostegno a nessuno. Questo è uno dei principali motivi per i quali ho deciso di fondare Restart».

Il direttivo Restart. Foto: Galluccio

 

Torniamo dagli Alinæa, anch’essi ambasciatori della salute mentale, perché il loro obiettivo è quello di spostare l’attenzione riguardo i disturbi mentali e portare un po’ di sollievo alle persone che vivono il disagio psicologico. I cinque si sono conosciuti per caso, vincendo un bando del collettivo bolognese Soul Original Love Experience, che ha finanziato il percorso formativo dei ragazzi. L’iniziativa nasce dal ricordo della passione per la musica di Sole, una giovane donna venuta a mancare nel 2018. «La musica era qualcosa attraverso cui lei riusciva a curare la sua anima», ricorda Carlotta Concilio, sua amica e presidente del collettivo. «Per onorare la sua memoria abbiamo dato la possibilità a dei giovani musicisti di entrare da professionisti nel settore; abbiamo regalato a loro delle lezioni di musica di vario genere, che non fossero focalizzate sulla qualità tecnica, ma sulla trasmissione di esperienze, che è impagabile». Il loro album di debutto è in fase di produzione, intanto hanno già suonato dal vivo, accompagnati dai tessuti aerei del gruppo acrobatico Kustò e dal teatro delle ombre delle Fucine vulcaniche, entrambi bolognesi.

Polonara ci annuncia l’uscita dell’album in primavera. Il filo rosso che lega le tracce è la ricerca del proprio io, «esperienze di vita in cui si possono rivedere tutti», commenta il frontman. È un lavoro ricco di testimonianze raccolte durante un progetto condiviso con Il Martin Pescatore, una cooperativa di Casalecchio di Reno che si occupa di reintegrare nella società le persone uditrici di voci, «estremamente fragili», come li descrive Polonara. Ci racconta il suo incontro con loro, proceduto per tappe: «All’inizio erano un po’ restii ad aprirsi, chiedevano a Erminia Turmini (l’educatrice del centro, ndr) chi fossimo. È finita che non volevano più lasciarci, volevano parlare, raccontarci di cose della loro vita». Gli Alinæa hanno chiesto agli uditori delle domande, che sono state inserite in alcuni brani dell’album. «Sono incentrate su “Cosa ti dicono le voci?”, “Quando e come ti senti felice?”, oppure “Com’eri da bambino?”», menziona Polonara. La collaborazione non è terminata, ancora i ragazzi invitato gli utenti ai loro live, affinché la realtà del Martin Pescatore possa raggiungere più persone.

Sarà un album che metterà in luce un problema non ancora regolarizzato nel sistema sanitario italiano: «Ho scoperto che diversamente dall’Emilia-Romagna, il Piemonte, la Lombardia e il Trentino-Alto Adige non riconoscono la patologia degli uditori di voci, per cui viene curata come sintomo e non come patologia vera e propria», denuncia Concilio. Perché in Italia si parla poco di salute mentale? Lo chiediamo a lei, pur non essendo medico. La sua risposta è spiazzante nel suo realismo: «Perché non si vede. Una persona in sedia rotelle può urlare, chiedere aiuto per salire degli scalini, mentre è più facile evitare o mettere in una stanza imbottita una persona che parla da sola o che ha perso contatto con il mondo».

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Una parte dell’articolo è stata realizzata per Quindici, quindicinale del Master in giornalismo dell’Università di Bologna.