18 agosto 2022

Il cuore gentile di un animo infantile: intervista a Bartolini

C'è un noto romanzo breve di Hermann Hesse che si chiama "Animo infantile" e il protagonista è un ragazzo di undici anni che un giorno ritorna da scuola, non trovando nessuno in casa, sale al piano di sopra nello studio di suo padre, dove ruba una collana di fichi secchi dal cassetto del suo comodino, senza sapere perché, solo per impossessarsi di qualcosa che appartenga al genitore. La parabola del romanzo, poi, segue altre direttrici, ma quello che ci interessa sottolineare è il parallelismo tra l'animo infantile e Bartolini. Anche lui, cuore gentile al servizio della musica, nato nel 1995 in riva al mare e molto presto adottato dalla Capitale.
Siamo riusciti a chiacchierare con lui in occasione dell'uscita di Bart Forever, il suo secondo album, concepito come fosse l'ultimo. Un insieme di greatest hits, ma inedite, che mettono a nudo tutte le caratteristiche di Giuseppe (questo il suo nome proprio): un'enorme capacità di mettere in musica i suoi disagi emotivi interiori dell'infanzia e una duttilità musicale senza precedenti.

Iniziamo con una domanda un po’ d’appendice: quest’anno hai collaborato con Franek Windy e Rares a DIN DON. Com’è nata questa collaborazione e cosa ti hanno dato rispettivamente questi due artisti? 

Allora, fa un po’ ridere. In realtà ho conosciuto Franek nel 2018 a Bologna in Piazza Verdi e lui mi ha aperto il concerto. Da lì siamo rimasti sempre in contatto, avendo anche Jesse The Faccio come amico in comune. Il pezzo è di due anni fa, nato a nel settembre pandemico: era già uscito Penisola e io ero a Trebisacce, il mio paese d’origine in Calabria. Mi ha scritto di avere un beat senza voci e di voler fare un mixtape di featuring su SoundCloud. Io ho scritto la mia parte in macchina mentre andavo allo studio di registrazione e la prima registrazione è con le cuffiette dell’iPhone! Poi Franek, rimandandomi indietro il pezzo, mi ha detto che c’era pure Rares sulla nostra traccia e noi due ci siamo conosciuti per la prima volta pochi giorni fa.
Franek poi con DIN DON ci ha fatto un master e lo ha inserito nel disco che ha poi pubblicato su Spotify.

Con Bart Forever siamo al tuo secondo album: com’è cambiato (se è cambiato) il Bartolini da Ferrari ad oggi?

Tantissimo. Un abisso. Non solo a livello musicale, ma umano. La parola chiave di questo percorso è la consapevolezza. In quel periodo (Ferrari, primo pezzo pubblicato su Spotify, ndr.) stavo seguendo un percorso con un collettivo ed ero molto legato a questa cosa qui. Collaboravo con mio cugino, il produttore del progetto, e tutto era nato per gioco e amicizia. C’era stima reciproca ma finiva lì. Io poi mi sono ritrovato da zero a ricostruire un percorso solista e ne ho vissute poi parecchie. Ho perso tanto e tante persone: poi Penisola, la pandemia, un punto bassissimo per me. Ho anche pensato di poter smettere, ma ho trasformato la negatività in energia…

Ti fermo un attimo perché facevo questa stessa domanda al cantautore Fusaro e con te si è creato un ottimo parallelismo: entrambi avete due album all’attivo ma lui mi ha detto che siccome ha sperimentato poco l’esperienza di essere un “vero artista” a causa della pandemia, ora gli pare finalmente di respirare. Come mai tu invece hai fatto questo ragionamento inverso? Non trovavi più stimoli per suonare e hai pensato così di abbandonare? 

Ho questa idea perché ho messo tante volte in discussione me stesso, essendo molto autocritico. Tendo tanto a criticare ciò che faccio e con Penisola ho avuto tanti dubbi e sono venuti tutti a galla. Ci ho messo un bel po’ per ritrovare l’entusiasmo necessario per andare avanti e soprattutto durante la pandemia, per un progetto come il mio, non suonare, vuol dire tagliarmi le gambe. Poi sono tornato un anno in Calabria, è stato strano, alienante rispetto alla quotidianità romana. Ci ho pensato più volte che non fosse la mia strada e avevo bisogno forse proprio di Bart Forever per ripartire da zero e avere un nuovo inizio anche a livello di immagine. Il concetto di Forever è tutto qui, in realtà: come fosse una raccolta di greatest hits (ma sono tutti singoli nuovi e inediti) per celebrare la fine della mia carriera.
Di base, anche per chiudere la tua domanda: tre anni fa ero molto più confuso di oggi. Non sapevo cosa fosse Bartolini neanche a livello umano e per questo ero ancora molto ragazzino. Adesso, appunto, la musica è il mio lavoro ed è quello che voglio fare. Sono convinto al 100% di quel che faccio e manca ora quell’essere acerbo, ma ovviamente non ripudio Penisola. È stato un percorso necessario e non vedo l’ora di vedere come evolverà in futuro.

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Torniamo al disco, ho letto che Bart Forever l’hai descritto come un “omaggio alla tua adolescenza che sembra infinita”. In che senso? 

Oltre al fatto che è stato concepito come fosse l’ultimo, l’idea è quella di omaggiare ricordi, immagini e anche traumi adolescenziali molto potenti che mi colpiscono tutt’oggi. Fare musica per me significa fare ciò che ho sempre voluto dall’età di 13-14 anni. Un ragazzo di provincia che non riusciva a formare una band: ho costretto uno dei miei migliori amici a suonare il basso e un altro componente suonava la batteria, ma non abbiamo mai fatto uscire nulla. Ho sempre preferito starmene da solo. Forever è un ricordo e un cercare di prolungare quel periodo, quell’onda, quella scia. Sono sì più adulto a livello anagrafico, ma le immagini e le emozioni di quel periodo ancora mi fanno breccia. Quel Bart che continua a viaggiare, cambia luoghi, persone e situazioni, ma dentro son sempre uguale. 

Ti avevamo chiesto quando ti abbiamo intervistato per la prima volta di scegliere tre canzoni di Penisola per sintetizzare al meglio il tuo primo lavoro. Allora ti riproponiamo la stessa domanda anche per Bart Forever… 

Ti nomino sicuramente 108: intro del disco e nome del mio quartiere di nascita, perché a Trebisacce le zone si chiamano in base al casello ferroviario. Sono cresciuto nei cosiddetti palazzi rotondi, dove vive ancora mia nonna, delle costruzioni anni ‘70 molto particolari. Un luogo mistico dove vivevo con i miei, poi loro si son separati, quindi poi ho vissuto in un altro palazzo… in tutti i suoi appartamenti: da solo, con mia madre… Ogni volta che ci ritorno, anche oggi, è certe volte molto pesante perché rivedo la mia infanzia, al mare… Mi nascondevo tra i palazzi. Il ritornello è così perché parlo di un sogno costante che ho fatto fin dal liceo, in questa macchina a metà tra due palazzi c’ero io, ma non ricordo l’interpretazione. 108 è un sogno-avventura, mi dà l’idea di Goonies-Stranger Things, con tanti bambini… poi ti direi Forever, la canzone da cui è partito tutto, l’estate scorsa. Il testo sono io messo completamente a nudo. Il terzo pezzo ti direi Fulmini

Due anni fa dicevi che ci avresti messo altri due-tre anni per fare il secondo album e hai avuto ragione. La scrittura dei brani di Bart Forever è stata realizzata in questo periodo o c’erano già alcune bozze pronte da Penisola?

Non esistevano bozze, no. Il primo pezzo in ordine cronologico uscito fuori post Penisola è stato Schiena (assieme a Mon Amour, uscita poi a maggio dell’anno scorso che, dal punto di vista della fruzione digitale, è una marea di tempo fa se ci pensi). Doveva uscire in realtà un EP a settembre dello scorso anno, un BRT vol.2, solo che per motivi discografici si è deciso di aspettare, anche perché il rischio di far uscire un secondo album (dopo Penisola) in piena pandemia era concreto e forse non era proprio il caso. Allora ho continuato a scrivere le tracce e poi è nato il disco.

Ho notato che hai un rapporto molto particolare con tuo padre: in Forever dici che ti manca e lo hai citato spesso anche in Penisola. Qual è il suo insegnamento che più ti porti dietro?

Potrei scrivere un libro. Ti direi la generosità e la leggerezza, la spensieratezza e la bontà di essere positivi con tutti e di cercare di trovare sempre qualcosa di bello. Cercare e ricercare di stare bene, questa patina di Peter Pan, il vivere alla giornata e un’adolescenza infinita. Sono fatto così e me lo ha trasmesso lui. Sono molto timido e riservato, poi negli anni sono cambiato, però di base c’è questa isola che non c’è e cerco di vivere tutto come un bimbo sperduto e questo mi ha trasmesso lui: non essere mai preso dai pirati!

Arriviamo alle influenze del disco: se dovessi citarne almeno due musicali e una non, quali sarebbero e perché?

Parto dalla non musicale e ti faccio il nome di uno dei miei libri preferiti fin dall’adolescenza e che mi sono portato dietro anche durante la vita universitaria, che ogni tot anni riprendo per vedere come sono cambiato io: Il Giovane Holden di Salinger, assieme a On The Road e altri classici della letteratura americana.
A livello musicale, invece, ti direi Jim Dawson, Dominic Fike e The Drums. Il primo è messicano, caposaldo dell'anti-pop, il fulcro della freschezza mondiale e spacca tantissimo.
Ora che ci penso, però, mi viene in mente anche un'altra ispirazione non musicale ed è la serie Euphoria: l'avevo iniziata ma non mi era immediatamente piaciuta, poi è uscita la seconda stagione e guardando ci fosse Dominic Fike, uno dei miei miti, dovevo per forza guardarla e l'ho apprezzata.

Schiena è il pezzo che forse colpisce più d'impatto al primo ascolto: com’è nata?

È nata dopo Penisola, ero a Bologna, esattamente una settimana prima chiudessero tutto per il Covid. L’ho appuntata sulle note del telefono la stessa notte in cui Morgan ha mandato a fanculo Bugo sul palco di Sanremo, che io in diretta non ho visto perché ero a quella festa che cito anche nel testo. È nato molto di getto questo chitarra e voce, che poi ho continuato a lavorare durante l’estate. È uno dei pezzi più importanti. È pesante, assieme a molti altri dell’album, quasi terapeutico. Quasi una terapia allo specchio, ma bella.

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Una domanda che è più una curiosità: la durata dei tuoi pezzi è in media breve. C’è un motivo in particolare, deriva dal tuo bagaglio di esperienze d’ascolto musicali? 

No, diciamo che in realtà non mi piace fare pezzi molto lunghi. Forse inconsciamente rientra il fatto che l’ascoltatore sia distratto… ma in realtà non sono troppo lunghi, ma nemmeno troppo corti insomma. Rientra comunque nei miei ascolti un po’, effettivamente ciò che ascolto spesso ha una durata medio-breve, specialmente le reference di questo disco e nel mercato di oggi in cui si tende a far durare le cose di meno proprio per un fatto di attenzione. Venendo da un’attitudine punk-emo, tendo comunque, per natura, a diminuire la durata dei pezzi. Però se mi vedi di primo acchito mi accosti all’alternative rock o new wave, ma in realtà sono un punk dentro!