21 febbraio 2020

"La musica deve arrivare prima di me": intervista a The Leading Guy

Ve lo avevamo segnalato già da un paio di anni fra gli artisti emergenti da tenere d'occhio, eravamo rimasti innamorati della sua reinterpretazione di De Andrè in Faber Nostrum; ora finalmente siamo pronti a farvelo conoscere ancora meglio. The Leading Guy era l'artista di cui la scena italiana aveva profondamente bisogno: qualcuno che cantasse in inglese e (da poco) anche in italiano, attraverso un genere nobile come il folk che, purtroppo, nel Belpaese non ha mai avuto fortuna. Dopo aver ottenuto un buon successo da parte della critica per il suo secondo album Twelve Letters, ha da poco pubblicato il suo primo singolo in italiano Per non andare via. Lo incontro in Santeria Social Club a Milano, poco prima che salga sul palco per la sua seconda data del tour. Ecco quello che ci ha raccontato.

Ciao Simone, vorrei partire chiedendoti del tour che è appena iniziato. Questa è la seconda data ed è il primo tour che fai con una band  al completo al seguito. Com'è stato a Firenze poterti esibire in tutt'altra veste?

È stato emozionante perché era la prima volta e come tutte le prime volte fa paura un po'. Però è bello. È uno show totalmente diverso da quello che portavo in giro negli ultimi cinque anni chitarra-voce. Per forza di cose sia perché c'è una band ma anche perché sostanzialmente c'è un pensiero diverso dietro allo spettacolo, una voglia di essere più coinvolgenti e di cantare anche un po' più forte di come ho fatto in maniera più intima in questi anni. Ho la fortuna di avere due dischi, Memorandum e Twelve Letters molto diversi fra loro: il primo è molto più intimo, il secondo è molto più suonato e quindi credo che lo show si equilibri bene tra questi due momenti.

Tu spesso dici che il tuo primo disco è molto introspettivo, che guarda all'interno, mentre il secondo vuole essere più uno stare insieme, un cercare di coinvolgere una collettività.

Sì, perché quando ho scritto Memorandum non  c'era ancora questa follia dell'io io io che c'è adesso. Sembra assurdo perché sono passati cinque/sei anni da quando l'ho scritto. Dire io era ancora un avere un pensiero che poteva andar bene. In questi anni vedo che tutti tendono molto ad essere individualisti e a dire io in una maniera un po' troppo negativa, come un "guardami, guardami". E quindi forse Twelve Letters è stata proprio la risposta a questo: voler dire "noi" invece che "io".

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Una cosa molto bella che mi ha colpito leggendo un po' di tue interviste in giro (e che poi traspare ovviamente anche dalla tua musica, da quello che scrivi e da come lo scrivi) è che non te ne frega nulla di fare in modo che tu sia famoso, ma solo che lo diventino le tue canzoni. È un po' una controtendenza rispetto a quello che siamo abituati a vedere nell'industria discografica odierna e sui social. Un commento a riguardo?

Rispetto al passato credo sia normale che la persona adesso arrivi prima della musica e questo forse è un problema. Perché la persona parte mostrando se stessa e poi la musica. In passato arrivavano le buone canzoni e magari non sapevi che faccia avesse quel cantautore per dieci anni. Non c'era un sito internet dove andare a cercare la faccia che aveva, a meno che non leggevi le riviste e poteva capitare che arrivassi al concerto dicendo "Ah ha questa faccia qui!". E quindi non lo so come commentare… È okay avere delle icone, però partire dall'idea "creiamo un'icona e poi vediamo cosa canterà" secondo me è sbagliato: non è più musica.

Un'altra cosa che penso ti contraddistingua molto dagli altri è l'onestà: qualche mese fa non ti sei fatto problemi ad ammettere di dover posticipare il tour perché in alcune città non stavi staccando abbastanza biglietti per sostenere venue così capienti. Molti tuoi colleghi di solito non si fanno scrupoli a mentire a riguardo e inventarsi problemi di salute o di qualsiasi altro genere, piuttosto che ammettere la realtà dei fatti.

A me viene naturale fare così... Se canti determinate cose  - certo forse non sono Madonna [ride] - e cerchi di avere delle tematiche, poi devi conviverci la notte con le bugie che dici e quindi semplicemente era stato un inciampo quello del tour. Naturale anche per chi canta in inglese in Italia e decide di fare posti così grandi. Può capitare che alcuni posti non vadano bene come altri ma è normalissimo: ci si ferma e si riparte. Se cinque anni fa mi avessero detto che questa sera avrei suonato qua (in Santeria Social Club ndr), ci avrei messo la firma.

Adesso ti faccio la domanda che ti stanno facendo tutti in questo periodo: il tuo ultimo singolo Per non andare via è in italiano e quindi per te è una novità. Qualche mese fa avevo assistito a una tua intervista durante un instore in Feltrinelli e dicevi che non te la sentivi ancora di scrivere in italiano. Cos’è successo nel frattempo?

Bah… non lo so. Per farti un esempio o un paragone: se tu vuoi fare il centometrista, nella vita ti alleni per fare i 100 metri nel miglior tempo possibile ed è quello che ho fatto io in inglese. Cantare in italiano era uno sport che non volevo praticare. Poi capita però che un pomeriggio un tuo amico ti dice "prova!" e quindi lo fai e magari ti diverti e ti viene anche bene. L’italiano quindi  non lo cercavo minimamente, non dicevo “non me la sento, perché ho paura di fallire” ma perché non avevo nulla che mi rodesse dentro da doverlo cantare in italiano. Invece, quando è nata questa canzone è successo veramente in maniera spontanea e soprattutto in poco tempo. Le canzoni, se ci metto troppo tempo a scriverle… vuol dire che mi hanno già annoiato, perché mi hanno fatto perdere troppo tempo [ride]. E quella è nata veramente in un quarto d’ora e poi è rimasta lì per un bel po’ finché non mi son detto “perché no?”. È un brano sicuramente… non è una hit estiva per intenderci. Però anche per questo sono orgoglioso di averlo pubblicato.

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Leggevo che tu sei abbastanza contro quest’idea dell’illuminazione dall’alto che ti folgora per comporre. Invece spesso ti viene in mente una frase, parti da lì e ci lavori molto.

Sì, sopratutto in inglese è molto un costruire. Io ho il telefono pieno di 15 secondi di idee, poi un giorno non metti insieme queste idee, ma scopri che te ne viene in mente una totalmente diversa e la scrivi velocemente. Però le canzoni nascono velocemente, ma dietro c’è tutto questo lavorare senza lavorarci. Perché poi le canzoni che escono non sono mai quelle delle note vocali, per intenderci. Credo che da tutto questo lavorare poi nasca in un colpo la canzone. Però devi lavorare, assolutamente. Tanto.

Poco meno di un anno fa ti sei cimentato in una splendida interpretazione di Se ti tagliassero a pezzetti. Quanto è stata importante quell'esperienza per poter arrivare a pubblicare un singolo tutto tuo in italiano? Faber Nostrum ha visto la partecipazione di artisti molto più famosi di te, ma la tua interpretazione è quella che ha più colpito pubblico e critica.

Quello è un bel disco. Io credo che la fortuna che ho avuto io è quella di non sapere e di non avere mai cantato in italiano e quindi sono partito con un approccio inglese nella mia testa, sebbene le parole fossero italiane. Forse questo ha dato alla canzone quel sound un po’ american folk, un po' english folk e che magari in altri brani magari non c’è perché le altre persone sono abituate a cantare in italiano e lo fanno anche molto bene e quindi forse sono rimaste nel loro orto, mentre io sono dovuto uscire dalla mia comfort zone. È stato importante perché sicuramente è inutile dire che se venivo stroncato sicuramente l’italiano l’avrei rimandato ancora. Fa bene sentirsi dire “mi è piaciuta”. Magari anche se tu non sei convinto al cento per cento e dici “cavolo, li ho fregati!”, fa bene sentirsi dire che una canzone piace e quindi sicuramente mi ha aiutato a trovare il coraggio di pubblicare adesso questo singolo.

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Tu hai fatto una gavetta molto lunga, step by step, senza saltare neanche un passaggio e quindi penso sia abbastanza naturale per te essere contro i talent (Amici, X Factor, etc.). Leggevo che questi ti hanno fatto rivalutare Sanremo in un’ottica positiva.

Sì, io capisco chi va a fare i talent, però è una cosa che io non farei mai, perché è un meccanismo a cui non credo. Statistiche alla mano, tra i tanti nomi quanti poi sono rimasti? Forse dieci nomi in vent'anni? Perché i talent sono iniziati con Maria De Filippi, ben prima di X Factor e di tutte quelle cose. E quindi statisticamente è sparare… sparare in aria. Preferisco sparare in aria e rischiare di non riuscire mai, ma a modo in mio. E il talent questo non lo fa, perché ha dei tempi e delle regole sicuramente da show televisivo. Sanremo invece è una cosa diversa. Non ho mai avuto nulla contro Sanremo, a parte il periodo che hai vent'anni e sei “Sanremo buuu!” [ride]. Bisogna vedere chi c’è passato su quel palco: ci è passato tutto il meglio della musica italiana da sempre. C’è passato Modugno… ci sono passati tantissimi artisti che meritano, l’importante è capire quale sei tu dei venti in gara (o quanti sono) di Sanremo. Se riesci ad essere uno che merita, Sanremo è sicuramente una vetrina importante.

Che giudizio daresti allo stato del folk in Italia?

Al momento direi… non so cosa s’intende per folk italiano, perché è praticamente inesistente. Del folk inglese ho avuto quasi una stanca qualche anno fa con l’apice dei Mumford and Sons e ogni cosa quando poi diventa mainstream rischia di collassare, ma ci sta. È un peccato, perché io ho sempre ascoltato questa cosa qui, non sono mai entrato in nessun filone perché stava funzionando, altrimenti adesso non farei folk ma italian-pop, come lo chiamano. Adesso è in un momento di crisi, ma il bello del folk (come del rock) è che non muore mai.

Tu hai girato molto e suonato un sacco in Europa. Lì la situazione è decisamente diversa per il folk: penso ad esempio alla Germania o al Regno Unito. Lì c’è molta più voglia di contaminazione e sperimentazione, c’è anche più pubblico rispetto a qui. Cosa ne pensi?

Io posso parlarti dell’Inghilterra, dell’Irlanda e della Germania, i Paesi che conosco meglio. In Germania ad esempio c’è un approccio diverso: nel tessuto sociale c’è molto meno quell' “ascolto lui perché è lui”. Hanno le orecchie ben più aperte, comprendono molto meglio  l'inglese di noi e vanno ai concerti. La gente va ai concerti ed è abituata a pagare anche per quelli piccoli, se sono anche solo 5 sterline le paga. È un meccanismo diverso. Qui prima di chiedere dei soldi per un concerto devi essere qualcuno, prima delle tue canzoni. Questa cosa all’estero non c’è, nonostante anche lì avranno sicuramente le loro magagne. Lì c’è una voglia di ascoltare a prescindere da chi sei tu e da chi sale sul palco. 

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Qual è il tour dove hai fatto da supporting act che più ti è rimasto nel cuore? Fra Jake Bugg, Elisa e Jack Savoretti la sfida dev'essere ardua.

Ho tre risposte: la prima è sicuramente Jack Savoretti, perché è stato il primo vero opening di The Leading Guy, da lì in poi sono cambiate un sacco di cose. Ed è bello che lui sia cresciuto tantissimo. Quando l’ho aperto io era sulla rampa di lancio ed è bello che in questo tour torni a suonare nello stesso teatro  dove ho iniziato cinque anni fa, ma questa volta ci sia io da headliner. Il secondo ti direi sicuramente Elisa. Perché ho imparato più in quel mese che in due anni:  a livello di come si affrontano i grossi tour, i grossi teatri, la professionalità di come ci si debba comportare, di quante persone che non si vedono ci siano dietro a questo mondo… Elisa mi ha insegnato veramente molto. E il terzo sicuramente è Jake Bugg, perché la prova del fuoco era andare in Inghilterra e cantare davanti a un pubblico non misto, come a Londra, dove becchi italiani. Lì siamo finiti nella provincia inglese in posti tipo Blackburn. Beccavi gli inglesi veri e il fatto che a fine concerto non si siano accorti che ero italiano era già positivo e aver ricevuto molti complimenti è stata una rivincita per chi dice che i mangiaspaghetti non ce la possano fare all’estero.

Ti è mai venuta voglia di rimanere all’estero senza dover passare attraverso una discografica italiana e quindi cercartene una là?

Sì, però… Rispetto magari a vent'anni fa, per assurdo, questo mondo web ha aperto molti canali ma ne ha chiusi altri. È molto più difficile se non hai le spalle coperte, i contatti giusti, finire in una Londra. Cioè io me la passo sicuramente meglio del 90% dei musicisti che vivono a Londra, perché lì come anche a Berlino, inizia ad esserci un mercato così saturo che a Londra ci devi arrivare da fuori, se ti ci lasciano entrare. Forse andare in mezzo a tutti i leoni non è sempre la mossa migliore. E poi vorrei riuscire a farcela… Dovrei anche vivere a Milano, ma vivo a Trieste e voglio riuscire a farcela da dove vengo, perché appunto deve arrivare prima la musica di me: questo è il principio. Mi sembra assurdo si debba vivere per forza a Londra: allora buttiamo via il web ed i WeTransfer e Spotify. Se devo muovermi io, che palle, torniamo alle cassette allora. [ride]

Adesso sarai concentrato su questo tour, ma stai già iniziando a comporre o a pensare al terzo album?

Ho tantissime canzoni e alla fine di questo tour vorrei capire che tipo di disco vorrò fare, questa cosa dell’italiano come affrontarla, perché magari scriverò qualcos'altro che mi piace. Dare un seguito sarebbe piacevole. Poi sicuramente dopo la fatica per prepare questo tour con la band, quest’estate faremo molti concerti insieme e questo è l’obbiettivo. Sono stato fermo troppo in questo periodo e vorrei tornare a suonare molto ma molto di più. 

Hai paura di ricevere troppe pressioni dalla tua etichetta riguardo allo scrivere in italiano per essere più appetibile al mercato nostrano?

[ride] Beh ma le discografiche fanno le discografiche e gli artisti devono riuscire a rimanere artisti. Non sento la pressione perché è il lavoro più bello del mondo, e nel momento in cui mi sento sotto pressione vado a fare un lavoro vero. Scrivere canzoni non è stare sotto pressione per quanto gli artisti te la vendano… È bello scrivere canzoni, è bello cantarle: quindi se uscirà qualcosa che piace alla mia discografica sono felice, altrimenti vedremo cosa fare e cosa cantare. 

Tu lo scorso mese avevi anche scritto sui social che ti saresti preso un periodo per pensare, scrivere e leggere. Visto che trai spesso ispirazione dalla letteratura per le tue canzoni (Black, Melville), volevo chiederti cosa hai letto in questo ultimo periodo.

Ah che bella domanda… Proprio in questi mesi ho riletto Luce D’Agosto di Faulkner e La vita, istruzioni per l’uso di Perec

Un artista emergente che consiglieresti ai nostri lettori?

Io ho una mezza cotta per Fulminacci, mi piace molto, quindi sicuramente lui.