06 giugno 2025

Mt. Joy, intervista a Matt Quinn: "Hope We Have Fun nasce dalla gavetta"

Da ormai 10 anni c’è una band che ha saputo incarnare un genere per sua intrinseca natura vicino alle vicissitudini della gente comune come il folk in un modo tutto suo. Una band nata a Los Angeles, da membri di Filadelfia e legatissimi a Filadelfia, e che ha trovato il suo (enorme) riscontro principalmente dentro i confini degli Stati Uniti, faticando ad attraversare l’Atlantico proprio per le sue nitidissime radici territoriali. Probabilmente, una band che ha anche avuto la sfortuna di nascere e cercare il suo spazio in un momento storico particolarmente coperto nel genere, visto il successo dei Lumineers e dei Mumford & Sons. Stiamo parlando dei Mt. Joy, che hanno pubblicato lo scorso 30 maggio il loro quarto lavoro in studio intitolato Hope We Have Fun, arrivato probabilmente nel momento di maturità di una band che ha voluto riavvicinarsi alle radici intime del folk, cercando di offrirne la loro versione adattata al 2025. Per addentrarci nel loro mondo nel migliore dei modi ci siamo fatti raccontare chi sono i Mt. Joy e cosa rappresenta questo disco direttamente dal loro leader, chitarra e voce, Matt Quinn.

Mt. Joy press photo
Mt. Joy | Foto press

È davvero un piacere conoscerti Matt e poterti introdurre al pubblico italiano. Vorrei partire dalle fondamenta e quindi chiederlo a te in prima persona: chi sono i Mt. Joy?

Il piacere è tutto mio! Mi piace definirci come una band nel suo senso più classico possibile. L’idea del gruppo è nata tra il 2016 e il 2017 e ha preso piede con un piccolo concerto e un piccolo tour, uno dopo l’altro. Quello a cui abbiamo puntato sin degli inizi è stato semplicemente suonare, tanto e ovunque. Questo, nella nostra testa, è il modo in cui ci siamo affermati e siamo cresciuti lentamente, aumentando anno dopo anno quello che erano le dimensioni di concerti e venue. Non siamo sicuramente stati la band che ad un certo punto ha fatto il botto e si è ritrovata tra le stelle, ci siamo piuttosto costruiti un mattone alla volta. Per questo mi riferisco alla definizione classica di band: siamo più simili ad un gruppo anni ‘60 o ‘70 che ha suonato tantissimo insieme fino al momento in cui qualcuno si è accorto di noi. Ora che l’attenzione sembra su di noi, avere alle spalle tutti questi anni di esperienza ci è veramente di aiuto. Siamo sempre pronti a esibirci per tutti quelli che avranno tempo e possibilità di venire a vederci.

Mi ha sempre incuriosito il fatto che tu sia di Filadelfia, città emblematica della East Coast, e la band sia nata nella città diametralmente opposta, ovvero Los Angeles, che differisce per mille aspetti. Ci racconti come ci sei finito?

Mi trasferii a Los Angeles, per studiare e lavorare, principalmente per seguire la mia fidanzata di allora. Non c’ero mai stato prima e, nonostante mi piacesse già ovviamente scrivere canzoni, non andai per inseguire il classico sogno di una carriera nel cinema o appunto nella musica. E non pensavo nemmeno fosse una cosa plausibile. Ma mi piaceva scrivere appunto, lo facevo nei weekend, e il mio amico Sam (Cooper, chitarra e corista della band, ndr) si traferì proprio a Los Angeles per puro caso. Lì non conoscevo molte persone e così ci aiutammo molto a vicenda e la musica fu la base del nostro rapporto, iniziammo subito a lavorare su alcune canzoni insieme. E come si suol dire, il resto è storia! (ride, ndr) Molto velocemente decidemmo di volere una band e la mettemmo in piedi.

Quali differenze si possono trovare in due ambienti così diversi come Filadelfia e Los Angeles?

Filadelfia è una città di gente della classe operaia principalmente, con una grande tradizione culturale e anche culinaria. C’è anche un certo legame con l’Italia, in effetti, visto che oltre ai tantissimi ristoranti, moltissimi negozi alimentari e di vestiti hanno la specifica sezione italiana. Dista 80-90 miglia da New York e nonostante sia tra le città più grandi degli States, risente ovviamente tantissimo della Grande Mela ed è finita per vivere un po’ nella sua ombra. Dall’altra parte Los Angeles è molto più mediterranea per molti aspetti, anche climaticamente ad esempio. Quindi ti posso garantire che anche dall’interno l’impressione che si ha è la stessa che avete in Europa: il sole, le temperature, l’industria del cinema, ecc. Anche L.A. può essere una città operaia, ma ormai l’immagine che si è creata principalmente è quella dei flash e dei riflettori. Musicalmente è sempre complicato e non voglio ferire nessuno (ride, ndr). Da Filadelfia vengono grandi rock band, come possono essere i War On Drugs e Dr. Dog, ma anche artisti soul come Hall & Oates. Esattamente come nel caso delle due città, Filadelfia dà meno nell’occhio di L.A., ma c’è una grande cultura di partecipazione alla musica. La gente ama andare ai concerti ed è comune per tutti, la musica fa parte della cultura della città. Di riflesso, anche a Los Angeles si riscontra un’analogia tra musica e città: per fare un esempio, le prime band che mi è venuta in mente sono i Red Hot Chili Peppers e Beach Boys, con questa aria sbarazzina e presuntuosa, ma al tempo stesso che richiama l’aria aperta e il sole.

Nella vostra musica quale lato si riconosce di più nella vostra musica?

Ho sempre detto che amo Los Angeles, ma che lì non mi ci sono mai sentito veramente a casa, quasi come un perenne ospite. Ogni volta che invece rimettevo piede a Filadelfia, nonostante non sia glamour come L.A., la riconoscevo come la mia casa, il posto in cui c’erano i miei amici. Quindi sicuramente assocerei la mia musica più a Filadelfia.

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Ci racconti invece quali sono stati i tuoi ascolti, in quanto cantautore della band, e come questi si sono evoluti nel tempo?

Ho sempre ascoltato tanta musica e molto diversa. Se è un luogo comune dire “la musica dei miei genitori non mi piace” per me devo ammettere che è stato il contrario. In casa mia c’era una grande selezione e collezione di dischi di mio padre e grazie a lui ho da subito apprezzato prevalentemente i grandi cantautori degli anni ‘60 e ‘70 della scena folk revival: Bob Dylan, Joni Mitchell e Donovan, ma anche ovviamente classic rock e artisti della British Invasion. I miei genitori sono grandissimi fan dei Rolling Stones. Ho sempre amato i Grateful Dead e sono un grandissimo fan di Jerry Garcia. Lo metto sicuramente tra gli artisti che mi hanno più influenzato, per il modo in cui approcciava la musica e il canto. Mi sono sempre sentito coinvolto da quel tipo di artisti, nella loro missione di voler alzare l’asticella e fare qualcosa che trascendesse il momento. Non ricordo un disco di quei riferimenti nelle loro rispettive epoche che abbia in qualche modo assecondato una qualche tendenza. Ho sempre studiato molto questi riferimenti nella speranza di poter ambire un giorno, con grande umiltà, a fare qualcosa che ci si possa avvicinare.

Durante il vostro percorso avete affiancato band come Lumineers, Shins, Whitney e Greta Van Fleet, in momenti delle loro carriere in cui erano già decisamente affermati. Passare del tempo con loro vi ha aiutato?

Abbiamo viaggiato in tour con i Lumineers per sei settimane, suonando nei palazzetti degli Stati Uniti: loro sono stati davvero fantastici con noi e ci hanno offerto la possibilità di esibirci davanti a platee di quella dimensione e di quel calore. All’epoca noi suonavamo solitamente davanti a 500 o 1000 persone quindi per una qualsiasi band delle nostre dimensione quella sarebbe stata un’opportunità incredibile. Ti ritrovi davanti a delle platee immense in cui corri il rischio che la gente se ne freghi perché di fatto sono lì per ascoltare la loro band preferita e tu sei in mezzo, le luci sono accese, c’è ancora gente che cerca posto. Ti senti quasi di troppo, ma poi ci siamo sempre detti che davanti a qualcosa come 10000 persone bastava convincerne il 10% per passare una bella serata e crescere. Saremo sempre grati dell’opportunità che ci hanno dato tutte queste band.

A proposito di contatto con le persone, nel periodo del Covid avete avuto un’idea fantastica: quella dei concerti drive-in. Ci racconti che periodo è stato per voi? 

Eravamo in tour con i Lumineers e il Covid arrivò e ci costrinse ad interrompere tutto. Quello che accadde in un certo senso fu un atto dovuto nei nostri confronti, oltre che per gli altri: avevamo lavorato così tanto nei precedenti 4-5 anni e finalmente sentivamo di essere quasi arrivati ad una sorta di affermazione. Proprio mentre stavamo per concretizzare le carriere per cui avevamo lavorato tanto, tutto stava per essere spazzato via. L’iniziativa non è stata solo mia, ad onor del vero: mi sentirei disonesto se ti dicessi che ho pensato tutto da solo. Fu una sinergia con alcuni promoter locali che pensavano che la gente avrebbe continuato ad aver bisogno di poter ascoltare musica e godere dei concerti, ma andava fatto in maniera sicura. E appena la cosa dei drive-in è stata nominata siamo saltati a bordo. I concerti si svolgevano in luoghi aperti e la gente veniva sistemata in cerchi adiacenti con 2 metri di diametro, in modo che il distanziamento sociale venisse rispettato. Sinceramente non pensavamo al fatto che potesse darci visibilità, ma ci preoccupava prevalentemente che in un periodo così delicato anche l’aspetto finanziario andava messo in conto, per cui era un lavoro come per un qualsiasi altro tour. Il fatto che ci facemmo trovare pronti ci venne riconosciuto e fummo premiati dall’interesse della gente nei nostri confronti: nel mercato musicale di oggi fare breccia è sempre più difficile per via della competizione spietata. Se ripenso a quel momento, ci vedo un momento di svolta importante per la band: avremmo dovuto essere in tour, una pandemia ci mise il bastone tra le ruote ma la nostra perseveranza ci offrì la nostra occasione, lasciando dei bei ricordi alle persone in un momento delicato.

Mt. Joy
Mt. Joy | Foto press

Arriviamo ora al motivo per cui siamo qui oggi: il vostro nuovo disco Hope We Have Fun. Ti andrebbe di descrivercelo, visto che il titolo stesso vi tira in ballo? Dove vedi un’evoluzione rispetto ai primi lavori?

Essere all’interno della band sono sicuro che possa alterare un po’ il giudizio a riguardo (ride, ndr), ma i cambiamenti ci sono. Non stravolgimenti, ma se ascolto Mt. Joy (il primo disco, ndr) e Hope We Have Fun c’è ovviamente un’evoluzione legata principalmente al nostro essere cresciuti come band e come singoli musicisti. Ci siamo a mano a mano conosciuti meglio, abbiamo affinato il suono e penso (e spero) di essere migliorato nella scrittura delle canzoni. Quello che è uscito è una riflessione di una band che nei due anni precedenti ha suonato davvero tanto e dappertutto dal vivo, nelle arene, nei palazzetti e nei grandi festival. Guardavamo il pubblico e ci rendevamo conto di essere diventati visibili, una band di un certo spessore. Questa sensazione ha generato anche una spinta, presente nel disco, di voler conservare il nostro solito obiettivo di scrivere canzoni soddisfacenti senza puntare ai numeri: volevamo dimostrare che eravamo la solita band a cui piace suonare tanto per la gente, che il nostro spirito è lo stesso e lo è anche la voglia di avere un suono nostro.

Questo contrasto tra la piccola e la grande dimensione si sente all’interno del disco.

Penso che in effetti ci siano sia canzoni in grado di far cantare e ballare un grande pubblico così come canzoni fatte per essere suonate in intimità con i propri amici. Quindi assimilare il cambio di dimensione attraverso la scrittura e cercare di comunicarlo con sincerità. Il tema del disco, che è anche il titolo, viene da una riflessione. Ricordo nitidamente durante i nostri spostamenti, scrivendo musica e testi, che in più di qualche occasione mi sono fermato a pensare cose del tipo: “ehi, guarda dove siamo arrivati e cosa abbiamo fatto”. Passare da momenti come quello del Covid in cui c’era la possibilità concreta di non riuscire ad andare avanti, dall’aver messo alla prova relazioni sentimentali e famigliari, al vedere il Madison Square Garden pieno per noi. E quindi si arriva a questa giustapposizione: ce l’abbiamo fatta, ma speriamo ne sia valsa la pena, speriamo almeno di esserci divertiti a sufficienza e speriamo di poter continuare così ancora.

Mt. Joy - Hope We Have Fun album cover
Mt. Joy - "Hope We Have Fun"

Questa riflessione e maggiore serietà sembra riflettersi anche sulla copertina dell'album che rispetto alle vignette coloratissime dei primi tre dischi è una scritta a mano bianca su sfondo scuro.

Le prime tre copertine sono state realizzate da Steve Girard, un amico e compagno al college di Sam, da cui ci piaceva rubare degli schizzi, ovviamente con il suo consenso (ride, ndr). Il caso ha voluto che stavolta Steve sembrava meno convinto di lasciarci uno schizzo, o comunque che non si trovasse facilmente un disegno che mettesse tutti d’accordo, così in maniera abbastanza naturale ci siamo detti di andare oltre. Passare dal massimalismo dei personaggi illustrati da Steve a qualcosa di minimalista. In questo Bailey, la nostra art director, penso abbia fatto un ottimo lavoro: minimalista ma potente abbastanza da poter essere molto identitaria e “cava” per lasciare spazio alla musica al suo interno, che è la cosa che deve davvero comunicare. Creare aspettativa con la scritta e poi all’interno dare quel divertimento e soddisfazione che desideravamo.

Per quanto riguarda le canzoni, Highway Queen è stato il primo singolo estratto: è stato anche il punto di partenza del disco?

Diciamo che è stata la prima canzone scritta del disco: Highway Queen è il frutto delle sessioni di scrittura e registrazione tra le varie tappe del nostro lunghissimo tour, scritta con l’intento di essere folk esattamente come alcune canzoni che allora stavo ascoltando prima delle date. Alcune canzoni richiedono mesi, questa è uscita in modo abbastanza naturale e nonostante mi sia interrogato parecchio sul fatto che avesse senso o meno aspettare di avere un disco o se poi sarebbe stata calzante o meno, decidemmo di pubblicarla come frutto di un momento ben preciso. Arrivati al momento di finire l'album, grazie ad altre canzoni folk, come Wild And Rotten con Nathaniel Rateliff, ci siamo resi conto che poteva essere calzante.

E invece Lucy è riferita ad una specifica Lucy o è una generica ragazza?

Si basa su una storia vera, ma la persona non corrisponde alla realtà. La notte in cui suonammo al Madison Square Garden, un membro del nostro entourage era in ritardo per il bus che ci avrebbe trasportato. Ci informarono che si trovava in ospedale perché fu diagnosticato un tumore al cervello di una persona a lui molto vicina con una prognosi piuttosto critica, al punto che non sapevano se avrebbero potuto mai più vedersi o parlare. Passammo molto velocemente dallo scherzare su dove potesse trovarsi questo nostro amico ad una grandissima tristezza: ho riflettuto davvero tanto su questa storia, tanto da volerci scrivere una canzone, ovviamente senza fare riferimenti diretti per non dare attenzioni alla tal persona che avrebbero potuto creare più che altro disagio. Parla proprio dell’affrontare un momento così delicato senza paura, senza mediazione.

In questo disco inoltre c’è spazio per due featuring.

Il primo è con Gigi Perez, un’artista incredibile. Quando la conobbi e ci incontrammo la prima volta, non conoscevo la sua musica onestamente e questo mi fa apparire sicuramente come una persona poco cool, perché avrei dovuto saperlo. Una cantautrice davvero talentuosa, abbiamo da subito lavorato a qualcosa insieme perché abbiamo pensato che le nostre idee potessero sposarsi molto bene in una canzone. L’altro featuring invece è con Nathaniel Rateliff: con lui abbiamo suonato alcune volte qui negli States ed è stata la nostra occasione per conoscere meglio lui e la sua band. Non c’è molto da dire, sono incredibili e lui è un cantautore pazzesco, una grande persona che è diventata una sorta di mentore. Sin da subito si è mostrato apertissimo verso una collaborazione: ci ha aiutato a mettere insieme questa canzone e appena finito di lavorarci non vedevamo già l’ora di condividere questo risultato per noi incredibile. Gli siamo grati e speriamo che possa piacere a tutti.

Mt. Joy
Mt. Joy | Foto press