Era il 2021 quando molti di noi si immergevano nel blu intenso del cielo di Gommapiuma (di cui ci aveva parlato qui), il terzo album di Giorgio Poi: rifinito e maturo, velato di una tristezza profonda ma leggera, in cui era fin troppo facile specchiarsi. Con Schegge, il nuovo disco del cantautore novarese (ma romano d’adozione), quel cielo si specchia in oceani e piscine dalle acque ora piatte e immobili, ora increspate dalle conseguenze di un'esplosione di cui, come canta nell’introduttiva giochi di gambe, “noi siamo le schegge”.

Non è cambiato il tono leggero di Giorgio Poi, ormai suo marchio di fabbrica sin da Fa Niente. Già dalla coloratissima copertina, Schegge trasmette una giocosità che si allontana dalle forme più canonicamente cantautorali di Gommapiuma per avventurarsi in un pop gommoso e caleidoscopico, sempre assolutamente d’autore, in cui è forte l’influenza di quel french touch che fonde classe e sperimentazione, rendendo ogni pezzo dell’album un piccolo monumento tridimensionale al dolore e alla guarigione, al passato e al presente, all’io e al noi. Non sorprende scoprire che l’album è stato amorevolmente supervisionato da Laurent Brancowitz dei Phoenix, band che ha da anni fatto di Giorgio Poi un proprio pupillo, portandolo in tour in giro per l’Europa e gli USA già dai tempi del suo primo disco. Qui l’influenza della band francese è riscontrabile in quella capacità di piegare un certo pop continentale alle proprie esigenze, senza dimenticare i numerosi anni trascorsi all’estero dal cantautore, tra Londra e Berlino, che hanno contribuito ad un approccio meno “italiano” alla forma canzone.
Dicevamo di mari e piscine, delle diverse forme dell’acqua che bagna questo disco: un filo conduttore calzante per un album che si muove a passo costante ma irregolare, alternando momenti più ritmati (giochi di gambe, nelle tue piscine, les jeux sont fait su tutte) con altri più in penombra (non c’è vita sopra i 3000 kelvin, un aggettivo un verbo una parola, delle barche e i transatlantici). Si ripete la “tradizione” della title track strumentale, mentre uomini contro insetti è la quota philspectoriana del disco, prendendo ispirazione dal suo “wall of sound” ma strizzando l’occhio anche al nostro Andrea Laszlo De Simone, in particolare quello di Vivo.

Una delle caratteristiche più interessanti di Schegge è la prospettiva: distaccata ma non apatica, una modalità panoramica che riesce a ragionare del “dopo” da un punto di vista privilegiato, quasi riuscisse a cogliere davvero tutte le sfumature della fine dell’amore con una chiarezza e una veduta d’insieme che potremmo considerare al limite della saggezza. “In certe acque si può solo annegare, lo so / Non ci nuoto più nelle tue piscine / Piuttosto preferisco cercare / Tra le onde un salvagente nel mare” riassume buona parte dei concetti espressi nell’album, e il cantato sereno ma sommesso di Poi trasmette liberazione, non ancora asciugatasi dalla tristezza, ma promettente in questo senso. tutta la terra finisce in mare è il pezzo che esemplifica al meglio il senso di prospettiva spiegato sopra, e forse anche quello che rappresenta al meglio Schegge dal lato strettamente musicale. Un brano sostenuto ma delicato, capace di affrettarsi o rallentare il passo con naturalezza, impreziosito da un arrangiamento sobrio ma ricercato. Lo stesso autore ha raccontato di aver tentato di esprimere questo concetto in almeno altri due brani scritti (e poi scartati) negli ultimi anni, tentando di restituire una visione, appunto, panoramica che fosse in grado di rappresentare un senso di inesorabilità così profondo da risultare inevitabilmente comprensibile, se non accettabile o addirittura rasserenante:
"Ma una luce si accenderà
Nel buio più cocciuto,
Sotto i raggi di un ombrello anche se non ha piovuto
Sento un piede che scivola,
Come qualcosa che se ne va,
Tutta la terra finisce in mare
Tutta la terra finisce in mare
E ci porta via con sé
Anche io e te"

Se con Gommapiuma Giorgio Poi aveva in larga misura abbandonato le atmosfere psichedeliche e sospese dei primi due dischi, con questo nuovo album le recupera trasformandole in semplice incertezza: la sua voce così delicata non tradisce mai favoritismi verso questa o quella emozione, così come gli arrangiamenti e in particolare l’uso di tastiere e sintetizzatori, capaci di accendere e spegnere la luce dei brani a seconda del mood. Se c’è dolore (e ce n’è) è più cronaca che richiesta d’aiuto, un racconto piuttosto che un crogiolarsi tra le proprie lacrime. Giorgio Poi ci ha consegnato un album lenitivo nella sua poetica oggettività (o viceversa?), raccontandosi e raccontandoci piccoli come schegge, sì sparati incessantemente nelle direzioni più diverse, ma allo stesso tempo cullati da quel mare di incertezza che non vuole più voltare le spalle all’inevitabile.
